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Abbiamo perso con merito, tra Napoli e Real Madrid ci sono quattro gol

L’acquaiolo catechista si affretta a dire che un primo tempo storico è una vittoria. Non è così. Alla fine sorrodiamo e appaludiamo, come Hamsik che rappresenta il nostro senso di inadeguatezza.

Abbiamo perso con merito, tra Napoli e Real Madrid ci sono quattro gol
Hamsik

Il sapore di straniamento

Tornare e andar via da Napoli in quarantott’ore dona uno strano sapore di straniamento. È un tempo sospeso di avvento. In aereo ci individuiamo di sottecchi, uno sguardo basta a intuire che siamo tutti diretti alla stessa Mecca. Per un attimo ci sentiamo insensati kamikaze del cuore, quasi fieri di incarnare una risposta percorribile ai tristi califfi dell’Isis – migliaia di affratellati che donano l’obolo per cosa? Per una sconfitta che è quasi inevitabile ma non si osa sfiorare con le parole, con un senso di pudore che immagino simile a quello degli occhi dei rabbini che sfiorano il tetragramma ebraico.

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Siamo tutti disposti a morire in un rito iniziatico che però è vivo e pulsa, lo senti mentre l’amico ti porta il pane con prosciutto e mozzarella ancora calda, col gesto di chi sa che se hai poche ore finali da spendere non si può non spezzare e dividere un latticino.

Il Real è il Picasso del pallone

Abbiamo visto davanti ai nostri occhi un vasto Picasso del pallone ed il suo nome era Real Madrid. Atleti di altri mondi lontani, déi che correvano su dure rotaie vestendo ai piedi docili scarpini da prime donne. I nostri figlioli prodighi che spendevano tutto il patrimonio nella fatica epica di sostenere il mondo sulle spalle di undici atlanti avevano vene gonfie e nodose sulle fronti esauste. Ho fischiato fino a sentirmi un pugno di sabbia in bocca. Erano fischi di paura.

Come le preghiere. Un soffio nella ripresa è servito a ricordare che si vive di una attesa di cinque ore su sediolini che sublimano la scomodità ad arte, fumando e conversando con un groppo in gola di argomenti eterei, come antichi padri della chiesa, e poi si muore in pochi secondi sul soffice urlo aristocratico e soffocato di una sparuta manciata di tifosi ospiti cui di te non interessa nulla. Zero. Uno. Due. Fine.

Abbiamo perso meritatamente

Poi c’è il resto. Stavolta conta poco. C’è l’acquaiolo catechista che si affretta a dire che un primo tempo storico è una vittoria. L’acqua è fresca. Ma neanche per idea. Abbiamo perso e meritatamente e questo non ci acquieta. Abbiamo visto che il nostro meglio non serve a porre meno di quattro reti di scarto tra noi e gli dei. Non serve a provare il brivido di una seppur piccola hybris. E questo mi ricorda che siamo in cammino eppure lontani anni luce, oggi, da un orizzonte diverso.

Hamsik e il nostro senso di inadeguatezza

L’uomo che più di tutti rappresenta questo ineludibile senso di inadeguatezza che tutti condividiamo alla fine, mentre rimaniamo in piedi ad applaudire e sorridere, è il capitano Marek Hamsik. Si è battuto con quanto aveva in corpo ed è stato insufficiente. Lo vedo uscire dal terreno di gioco quasi consacrasse la sua verità – se li volete grandi, li volete lontani da Napoli, dove è lecito crescere ma non oltre un limite. Amate i vostri traditori al soldo del nemico. Perché, agli dei sui binari d’acciaio, Napoli non basta neanche come spuntino.

Gli sguardi in aereo

Al gol di Mertens credo di aver intonato dei versi lirici in una lingua antica, forse sumera. Ho ricordato una pentecoste laica, quella in cui si racconta delle lingue di fuoco scendere dal cielo ma poi si ride perché non ci crede nessuno – chi potrebbe? E ringrazio Morata perché almeno lui il mio odio se lo merita, eleva questo nobile e bistrattato sentimento reinterpretando in chiave castigliana la geniale pipì sulla bandierina sotto la curva. Per essere grandi si deve saper incassare dal più forte, ed incasso volentieri per evitare di diventare anche io educanda.

Il resto conta poco. Sul volo di ritorno incontro gli stessi visi dell’andata. I sorrisi di conferma – ah! lo sapevo che andavi allo stadio. Ci si scrolla di dosso qualunque assurdo senso del ridicolo. Come canta il Boss, fa tutto quasi sorridere ma alla fine di ogni duro giorno di lavoro la gente cerca un motivo per credere. Lontano. Questo è il nostro.

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