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Napoli deve ricordarsi che, anche per sé stessa, vincere non è mai stata l’unica cosa importante

Giusto criticare quando le cose vanno male, ma buttare tutto via perché non si è vinto lo scudetto,o si viene da due sconfitte di fila, vuol dire rinnegare tutto, pure la nostra storia.

E che vuoi dire a Massimiliano Allegri? Conferenza stampa di Champions, per l’ennesima volta una domanda sul bel gioco (mancante o giù di lì) alla Juventus e solita risposta corroborata dai dati, dai numeri, dai punti di vantaggio: «L’importante è essere in testa il 31 maggio, conta chi resta sull’albo d’oro». Vero, giusto, sacrosanto. Ma non sempre. Per dimostrare questo concetto, non è facile andare al di là della retorica. Perciò, la controdomanda è sempre la stessa: dei Mondiali del ’74, vi ricordate più dell’Olanda o della Germania? Di Michels o Cruijff, di Schoen o Muller (ct contro ct, attaccante contro attaccante)? Come dire: se vinci hai sempre ragione. Ma ci sono tante altre cose importanti.

E proprio questo è il punto: la juventinizzazione del tifoso, del Napoli soprattutto come di altre squadre. Una sindrome strisciante che ti porta a esprimere determinati concetti, a scegliere atteggiamenti precisi, a preferire certe situazioni. Che ti porta a dire: “anche quest’anno non vinceremo niente” come se fosse l’eterna condanna latente per chi fa calcio o sport, come se l’obiettivo finale non abbia dei checkpoint intermedi che vogliono dire comunque forza e attrattività, che lasceranno comunque un segno nella storia. Che poi, il tifoso di calcio non è sempre così. Chi scrive, pochi giorni fa, ha parlato con un suo amico juventino, che gli ha confidato (in gran segreto, questo sì) quanto desidererebbe una Juventus con due punti in meno di vantaggio in classifica ma dominante e bella nel gioco «come il Napoli delle giornate buone»; sempre pochi giorni fa, in una discussione a tre con altri due tifosi del Napoli un po’ più stagionati, ho sentito la frase «tra primo e secondo scudetto non c’è paragone, perché nell’anno del secondo giocavamo una merda».

Da Allegri a Sarri, il passo è breve. Due mondi opposti, l’alfa e l’omega, lo zenit e il nadir (non il bianco e il nero, noblesse oblige). Il secondo, secondo i rumors, ha “perdonato” Koulibaly per l’errore grossolano sul primo gol di Dzeko “perché giocare così quel pallone fa parte dell’identità del Napoli”. Può essere condivisibile, io per esempio lo condivido fino a un certo punto, ma comunque significa qualcosa. Significa aver scelto un ruolo, aver sposato una filosofia. Significa che se Koulibaly, dopo aver portato palla riesce a evitare il pressing di Salah, superandolo con un dribbling o un tacco, se ne esce con gli applausi di tutto il San Paolo. E questo ha un valore, perché è un modo attraverso cui cercare di fare le cose. Che è da criticare nel momento in cui le cose non vanno bene (come ora, ci mancherebbe), ma che è troppo facile da scaricare con nonchalance dopo due sconfitte e solo per le due sconfitte.

È una questione di scelta, di stare da una certa parte della barricata. Con Sarri, ma pure con Benitez (che possa piacervi o meno, ma è così), il Napoli ha scelto di stare dalla parte dell’estetica. Ha scelto di ricercare un certo tipo di calcio per perseguire risultati. Un ruolo diverso da quello di chi, come Conte o Mourinho, sceglie l’esasperazione mentale e fisica del gioco per vincere; diverso da chi, come Allegri o magari Capello, preferisce la solidità per imporre la forza dei calciatori migliori; ancora diverso da chi, come Klopp o Guardiola, decide di cercare il risultato attraverso la tattica. Come dire: ci sono tanti modi, non è solo Sarri a essere diverso da Allegri. Eppure, dire che Sarri sbaglia “perché non vince” o “perché non ha vinto due partite” vuol dire sostenere che Klopp non stia facendo bene al Liverpool o che Guardiola non abbia apportato un cambiamento positivo al Man City. Alla fine, uno solo di questi due vincerà la Premier League. Potrebbe essere anche che non la vincerà nessuno dei due. Eppure, il loro contributo per la loro squadra club sarà stato importante. Sarà stato positivo. Perché hanno significato qualcosa, hanno sposato un’idea. Insieme al club, che sia una cosa condivisibile o meno.

Quindi, come dire: “È da sciocchi andare in depressione dopo due sconfitte“, e Fabio Avallone mi perdonerà per la citazione. Napoli deve stare vicina al Napoli, soprattutto adesso. Deve fare come quest’estate, a Dimaro, quando i napoletani erano in tantissimi anche se non si è vinto lo scudetto; deve fare come quando ricorda più e meglio “il Napoli di Vinicio” terzo in classifica rispetto a quello di Marchesi; deve fare come ha fatto sabato, subito dopo aver perso una partita per 1-3 in casa, quando non si è sentito un solo fischio e c’è stato pure qualche applauso; deve fare come il primo maggio del 1988, io non c’ero ma me l’hanno raccontato quei due amici stagionati di cui sopra, quando uno scudetto già vinto dal Napoli fu sottratto dal Milan in una partita al San Paolo. Che, e si può vedere anche su Youtube, si conclude con gli applausi del pubblico di casa.

Noi siamo questi qua, storicamente e nel cuore e negli atteggiamenti. Smettiamo di rendercene conto quando ci accorgiamo di essere a -7 dalla Juventus (quando Roma e Milan, seconde in classifica, sono a -5), ci annebbiamo e ci arrabbiamo perché “non si vince”. A un certo punto, vorremmo essere come quelli per cui “vincere è l’unica cosa che conta”. Che è una cosa lontana da noi, che può essere spiegata con l’attesa per un qualcosa di bello e grande, ma che non dovrebbe contemplare l’atteggiamento esasperato, di critica distruttiva. Anche perché, appena quindici giorni fa ci dicevano e ci dicevamo che il calcio di Sarri “è uno dei più belli d’Europa”. E noi eravamo contenti, anche senza lo scudetto sul petto. Pensate che a Torino chiedono la stessa cosa anche a chi, lo scudetto, ce l’ha davvero. A volte, ci sono tante altre cose importanti.

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