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La vera Europa sta nel calcio: la ricerca della vittoria è più importante delle divisioni

La vera Europa sta nel calcio: la ricerca della vittoria è più importante delle divisioni

Quelli che stiamo vivendo a valle del Brexit, senza falsa retorica, sono giorni drammatici per l’Europa. Come ha spiegato bene Diamanti, per la prima volta dopo la caduta dei blocchi ideologici del passato siamo di fronte ad una società frammentata oltre ogni previsione, nella quale le province sono divenute periferie, ovunque nel continente, mosse da un senso di impotenza e cupo risentimento, e i centri si sono riscoperti incapaci di parlare alle province, di esercitare fascino ed attrattiva lasciando loro coltivare l’ambizione di divenire un giorno “centro” di qualcosa. La frammentazione post ideologica, seppure così caotica, segue però una traccia. Ed è la mancanza di un racconto comune. All’Europa non sono sinora mancate le istituzioni ma i Melville e i Kerouac, persino una Hollywood; è mancata cioè l’epica europea – un racconto d’insieme, un intreccio di persone e luoghi reali e immaginari, che generi la vera koinè tra popoli vicini e diversi.

Eppure una vera epica continentale esiste – ed è il calcio – sebbene le istituzioni stentino a riconoscerlo. Gli Europei di questi stessi giorni ne sono una evidente dimostrazione. La Champions League ne è una prova che si rinnova negli anni. Quella calcistica è l’Europa nella quale, all’opposto di quella politica, i componenti, centrali o periferici, potenti o isolati, fanno letteralmente a gara ad entrare; il tutto nonostante – va notato – l’organo che regola le competizioni, la UEFA, sia tutt’altro che un esempio di limpidezza, e molto probabilmente assai più compromesso della Commissione di Bruxelles. Questo dovrebbe finalmente far riflettere sul falso mito dell’onestà che si è andato creando negli ultimi anni, in Italia e ovunque, secondo il quale i cittadini pretendono oggi politici anzitutto onesti, tema principe adoperato da molte forze populiste del continente per far breccia negli animi degli elettori e ritagliarsi uno spazio politico. Una teoria smentita dal calcio che, da vera fabbrica culturale collettiva, privilegia su tutti il racconto e l’imprevedibilità delle sue trame e si disinteressa della coerenza dei sentimenti, apprezza l’onestà intellettuale solo se strumentale a una evoluzione di comportamenti ed idee, perché sa che l’onestà senza incongruenze è monca ed inefficace. Il football mostra da sempre di essere più grande dei propri interpreti, proprio come le idee e le passioni, e che ai cittadini interessa la possibilità di essere parte di un romanzo che li tramuti in parole da scambio, tra centri e periferie. Solo quanto è funzionale a quel racconto è percepito come utile alla causa e degno di essere vissuto.

È il medesimo motivo per cui il calcio ha ottenuto l’integrazione degli immigrati e dei loro figli molto prima che lo facesse la politica, che ancora stancamente ne discute. Oggi abbiamo giocatori italiani che parlano (finalmente) con accenti stranieri, per tacere delle nazionali tedesche o francesi che vincono tornei con turchi e magrebini tra le proprie fila senza che nessuno se ne lamenti con convinzione, perché la strada che conduce alla vittoria del trofeo è sentita come più fondamentale della disquisizione accademica su razze e DNA dei giocatori. Attenzione, non sono gruppi di persone diverse: quelli che vogliono alzare i muri la mattina sono gli stessi che si ubriacano per il goal del proprio attaccante extra-comunatario la sera. Si delega tutto alla competizione e alla sua sintesi, e si delegherebbe anche la sovranità politica ad un unico Parlamento Europeo se esistesse un romanzo comune cui affidarne la storia oltre che una necessaria commissione di tecnici. Per questo, paradossalmente, negli ultimi vent’anni ha fatto di più per l’Unione la moneta unica – che si tocca, si usa, si lancia, si benedice e maledice tutti alla stessa maniera – delle mille tavole rotonde dei partiti transnazionali.

Ibrahimovic ha dichiarato qualche giorno fa: ”Vengo da un posto chiamato ‘Ghetto Rosengard’. Ho conquistato la Svezia e l’ho fatta la mia Nazione. A modo mio. Io sono la Svezia”. Poche righe che reinterpretano, contaminano e tramandano, come un moderno Averroè, secoli di storia, scritte con la mano sicura di chi sa essere autenticamente padrone degli animi di chi ascolta. Ibra potrebbe redigere la prima parte di una Costituzione Europea. Sarebbe un bagno di realismo ed umiltà nel tempo in cui la politica non sa parlare d’altro che di servizi da rendere ai cittadini, come se tutto il mondo si riducesse esclusivamente a quanto frequente è la corsa dell’autobus sotto casa e lo Stato fosse una banale partita doppia dare/avere, laddove a tutta questa grigia ragioneria d’ufficio il calcio oppone fiumi strabordanti di emozioni conflittuali, tenaci, umane.

Il calcio europeo, infine, è un antidoto contro il vero protagonista della scena politica di questi anni, e forse di sempre, ovvero la paura. Quella pronunciata esplicitamente o solo sussurrata e sfruttata dai populismi di ogni nazione. Movimenti che nascono e si sgonfiano. E’ la paura di essere tagliati fuori a muovere le province contro le metropoli e i centri contro le periferie, senza che si trovi un linguaggio comune per spiegarsi. Il calcio, prima di ogni cosa, allena alla paura, alla condivisione del tempo, all’accettazione dell’imprevisto, alla gestione del rischio, abitua al finito. Considerata ridicola dai più potenti, rimane la più grande religione d’Occidente in atto e la maggiore palestra per formare donne e uomini scettici eppure persi nella passione. Esattamente quanto serve affinché si trovi quella grammatica condivisa, e periferie e centri finalmente si intendano.

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