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Questo Napoli è come Maradona: una cosa mai vista

Questo Napoli è come Maradona: una cosa mai vista

Nel ricordo della mia fanciullezza del pallone, privilegio e felicità per i quali ho avuto fortuna di conservare una memoria brillante, esiste da sempre una strana zona d’ombra, una singolarità che non riesco a collocare precisamente nel tempo. Ricordo che eravamo allo stadio. Era una domenica di sole, credo di fine inverno. Probabilmente il campionato ’87-’88. Forse c’erano diverse altre persone con noi sulle gradinate dei distinti, ma di sicuro sedevo tra mio padre e un suo zio, che chiamavo zio anche io e che di fatto fu il mio nonno paterno, fratello minore e prediletto di quello legittimo che io non conobbi mai. Come dalla luce rossa sospesa in una camera oscura, si sviluppa in superficie qualche immagine poco nitida – mi pare ci sia un goal di Maradona, un calcio piazzato proprio sotto la nostra zona, spettacolare. La gente si scioglie nel classico delirio ed io con loro. Ricordo poco altro, perché tutto sembra assorbito voracemente da un unico evento che segnerà quella giornata esondando inaspettatamente nel mare indistinto dei miei sentimenti. Mio zio si volta verso mio padre e gli confida con voce squillante: “Cesarì, io una cosa del genere non l’ho mai vista.

La frase fu questa, quasi certamente, su questo potrei scommetterci. Fu una epifania chiara, di quelle che si presentano da lontano in modo da lasciare a chi ospita il tempo di farsi trovare pronti. Mio zio chiamò mio padre, la persona che nella mia giovinezza è stato l’origine di ogni mio sistema di riferimento sul mondo, con un vezzeggiativo che si adopererebbe per un figlio, applicato ad un nome che nella storia è passato sulla corona di Zar e condottieri e che per evidenti ragioni è assai poco disposto a lasciarsi diminuire dal lessico rimanendo mansueto. Mi travolse la leggerezza con cui seppe scegliere quel diminutivo e giocarlo dinanzi ai miei occhi come una carta qualunque, per mostrarsi padre di mio padre senza alcun putsch subdolo o autoritario ma con un atto potente e rispettoso che non offendesse minimamente il mio profondo senso di figlio spettatore. Lo fece, mio zio – e di questo gli sono grato da allora – per spirito di servizio. Per far sapere al nipote e a suo figlio che c’era un passaggio di consegne che andava fatto e non v’era altro tempo da perdere, le carte della successione andavano firmate e vidimate immediatamente, sui marmi delle gradinate. “Io una cosa del genere non l’ho mai vista”, pronunciata dall’uomo che raccontava del pallone antico che io sognavo in bianco e nero, gli scarpini di Sivori, il Grande Torino, il Brasile del 70, il calcio che ascoltavo spiegato dal balcone del suo appartamento di fronte alla stazione di Mergellina dal quale indicava i luoghi delle macerie della Guerra e gli angoli usati in quell’epoca contorta eppure felice per disegnare porte e corner e falli laterali immaginari. Era sparito tutto o forse era solo collassato in un punto e superato da un calcio di punizione troppo potente per non vincere anche la storia. Era il presente che si riappropriava del tempo e ci costringeva a rimanergli avvinghiato. Ciò cui stavamo assistendo era nuovo ed era oltre le memorie i desideri le passioni le paure di chi, in casa mia, era il dolce messaggero del verbo del Dio Pallone.

Di quella partita non ricordo null’altro. Forse perché ebbi già allora la sensazione che poco altro era effettivamente degno di menzione più dell’entrata ufficiale in una nuova dolce epoca, nella quale la generazione precedente a quella di mio padre aveva deciso di lasciarsi ammazzare, lieve e scanzonata, di fronte ad un calcio piazzato. Più tardi nella mia vita, ragionando su queste cose, ho pensato spesso che c’è ben bisogno di figli che ammazzino i padri, come è noto dai tempi delle cosmogonie greche, ma c’è altresì bisogno di padri che si lascino ammazzare con la giusta ironia e l’enorme classe di cui si necessita per capire che quando c’è da scegliere tra l’adesso e tutto il resto, tra l’amore di oggi ed il suo racconto, un uomo che sia tale non ha scampo e deve servire l’amore, anche a costo di polverizzare tutta l’epica che ha studiato. Quel nonno putativo la classe la ebbe, e mi ammaliò quel giorno più di quella dell’altro Dio Palla che portava la dieci della mia squadra.

Oggi è l’anno duemilasedici. Quella fanciullezza del pallone la porto ancora tutta impressa dietro le retine dei miei occhi. Fu un tale mare di gioia che ancora oggi stento a trovare la gratitudine sufficiente a raccontarla. Eppure devo confessarlo: io una squadra del Napoli come quella di questa stagione non l’ho mai vista. Per tecnica. Per dedizione. Per lo spirito epico che ignora di incarnare. Per la fede incrollabile nella via estetica al successo. Per la voglia di essere una avanguardia italiana, una volta tanto, e vivaddio dal sud. C’è un universo che ruota attorno a questi undici che non ho mai visto, neppure allora, e che mi segue e mi precede mentre giro lontano da quello stadio e dai luoghi di quella felicità e quella fanciullezza.

C’è chi si sbraccia in questi anni per risalire il torrente della storia e trovare l’anfratto giusto in cui nascondersi. L’anfratto cambia nome, di volta in volta: è Maradona, è Vinicio, è il calcio di una volta, sono i due punti, il campionato a sedici o a venti, l’incommensurabilità delle epoche. Io preferisco la classe di una frase che costringe ad amare e morire oggi:  “Cesarì, io una cosa del genere non l’ho mai vista”. E nemmeno io.

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