Un gigante. Anche se arriva nell’aula magna dell’Istituto di Studi Filosofici con passo malfermo e coperto da due cappotti, una sciarpa e un cappello nero a tesa larga che gli copre fin su le orecchie. Che sul suo capo sembra sventolare come una bandiera dell’orgoglio ferito ma non domo. Un gigante dalla salute malferma, ma saldissimo nei principi e ancor più determinato nella lotta al trasformismo della politica e alla corruzione della borghesia che si è insinuata, come un veleno invincibile, in tutte le classi sociali. E le impoverisce fino a travolgerle. Trascinando nel baratro uno Stato impotente e connivente.
Un gigante cioè Gerardo Marotta. Lunedì ha preso la parola al termine della presentazione dell’Enciclopedia multimediale delle Scienze Filosofiche (da domani in edicola con il Corriere della Sera) l’opera monumentale concepita e realizzata con Renato Parascandolo ormai trent’anni fa ma oggi ancora più attuale di ieri. Perché raccoglie le testimonianze di mille tra i più autorevoli rappresentanti della cultura mondiale e, quindi, può riportare a quei valori calpestati contro i quali si è scagliato per l’ennesima volta – il viso pallido e la mano che faceva fatica a stringere il microfono – l’avvocato che tiene chiuso il portone d’ingresso del palazzo Serra di Cassano simbolo della rivoluzione napoletana del ’99 che resta, per Marotta e non solo per lui, l’unico sussulto della città contro la prepotenza dei governanti. Lo riaprì, regnando Bassolino, perché riteneva possibile un rinascimento napoletano, ma lo richiuse quando la realtà riprese il sopravvento sulla speranza.
Nell’aula magna i conferenzieri – il consulente della Regione per la cultura Sebastiano Maffettone, l’assessore comunale Nino Daniele, il filosofo Aldo Masullo e il direttore del Corriere del Mezzogiorno Enzo D’Errico – erano andati via dopo la presentazione dell’opera e così pure buona parte del pubblico. Al tavolo degli oratori, fedele nei secoli come un carabiniere a protezione della cittadella assediata, era seduto solo Gianni Vattimo, ma Marotta fremeva, doveva parlare e lo ha fatto commuovendo i presenti, pochi ma buoni e irresistibilmente attratti dalla passione che il gigante malfermo continua a trasmettere. L’esordio dell’avvocato è stato forte come un tuono o, se volete, come il colpo di cannone dal bastione più alto che un tempo scuoteva la città allo scoccare di mezzogiorno. “Napoli è piena di persone intelligenti ma solo per i loro affari. E non sono capaci di prendere decisioni in favore della comunità perché sono ignoranti e nessuno ha insegnato loro l’arte del buon governo”.
Gli applausi coprono le ultime parole, ma Marotta non si compiace e, soprattutto, non si ferma: ha deciso di dare ancora uno strappo. Anche per soddisfare la sete di conoscenza degli studenti che sono rimasti. Ne ho conosciuto tre – Margherita Borghese, Erika Rescigno e Nicola Spanò, compagni di classe nella V G del liceo Umberto – che ascoltavano il fustigatore indifeso che si era fatto gigante: “Queste parole, giuste e appropriate non le avevamo mai ascoltate, Napoli è stata una città importante non solo per le sue bellezze ma anche per l’eroismo della sua gente. Vorremmo tanto conoscerlo e parlare con lui”. Detto fatto, il cronista ha fatto da intermediario e i ragazzi vedranno il maestro tra qualche giorno. Non abbiamo speso neanche una parola in più della richiesta per convincerlo. “Fateli venire, cercherò di trasmettere loro quel poco che ho imparato”.
Tra quel poco c’è anche il carteggio con François Mitterrand che litigò ferocemente con il suo governo che aveva trascurato l’importanza storica della Rivoluzione Napoletana del ’99. Disse parole di fuoco il presidente ed espresse un concetto che Marotta ha scelto come punto di riferimento obbligato della sua crociata contro il malcostume dilagante come uno tsunami: “La rivoluzione napoletana è stata più importante di quella francese perché a Napoli gli intellettuali hanno preso il coraggio di creare uno Stato che si ispirasse ai principi di Platone e del bene pubblico”. Parole nobili, anche per l’irritazione civile che le sosteneva, che suonano familiari nell’aula magna dell’Istituto che Marotta difende con i denti: “Il grande Eugenio Scalfari parla ora degli hegeliani di Napoli e di Silvio Spaventa, noi qui cominciammo a farlo cinquanta anni fa e non abbiamo mai smesso”. La scudisciata conclusiva è micidiale, degna di un Marotta senza cappotto e finalmente felice: “Oggi a scuola si intonano meri ritornelli, la verità si faceva qui e per questo, quando se ne sono accorti, ci hanno tagliato i fondi”. Tonnerre de dieu si sarebbe detto un tempo. I ragazzi della VG dell’Umberto, invece, non parlano ma hanno gli occhi rossi per la commozione mentre Gerardo Marotta a piccolissimi passi se ne torna a casa, dieci metri più in là dell’aula magna dell’Istituto.
Carlo Franco