ilNapolista

Antonio Giordano spiega la ricerca sul Dna dei calciatori del Napoli: «Ne conosceremo limiti e prospettive, se sono soggetti a infortuni. Ma conta anche la forza di volontà, Insigne ne è un esempio»

Antonio Giordano spiega la ricerca sul Dna dei calciatori del Napoli: «Ne conosceremo limiti e prospettive, se sono soggetti a infortuni. Ma conta anche la forza di volontà, Insigne ne è un esempio»

Niente più trattative estenuanti con i procuratori con il rischio di acquistare un “brocco”. Maggiore facilità a capire, velocemente e senza analisi invasive, se una giovane promessa diventerà un fenomeno o resterà un talento da metà classifica, se sarà incline a infortuni e a lesioni muscolari. Possibilità di comprendere la predisposizione a patologie degenerative e di migliorare la diagnosi e la cura. È quanto sarà reso possibile dal progetto di ricerca sul Dna dei calciatori, primo progetto di questo tipo al mondo, che vede impegnati la Temple University di Philadelphia e lo staff medico del Calcio Napoli. Ideatore e supervisore della ricerca è il Professor Antonio Giordano, direttore dello Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine, che ha trovato un ottimo partner “e una grande comunione di intenti” nel professor Alfonso De Nicola, medico sociale del Napoli, una delle squadre di Serie A ad aver registrato, negli ultimi anni, il minor numero di infortuni tra i suoi tesserati.

Professor Giordano, quanto durerà la ricerca e come verrà effettuata?
La durata del progetto è di due anni. Abbiamo selezionato un centinaio di geni, responsabili della contrazione muscolare, del controllo del flusso di sangue nei tessuti, della purificazione dei tessuti dall’acido lattico, della capacità del muscolo di recuperare gli infortuni, i geni che incidono sulla respirazione, quelli che portano alla formazione dell’osso, del collagene nelle cartilagini, nella pelle e nei tessuti, i geni responsabili di problemi cardiaci e, soprattutto, quelli legati alle patologie più diffuse tra i giocatori. Abbiamo estratto il dna dei calciatori del Napoli attraverso campioni di saliva, in modo non invasivo, e stiamo raccogliendo altri dati sulle caratteristiche personali, professionali, familiari e ambientali dei pazienti, in modo da avere un quadro completo del singolo calciatore, della sua famiglia e quindi dell’ambiente in cui è nato e cresciuto, che ha un’importanza notevole nel suo futuro da campione. Dopo aver monitorato il tutto per due anni, compareremo i risultati ottenuti con quelli ricavati da atleti di altri sport e anche su persone “normali”.

Chi finanzia la ricerca?
Lo Sbarro Institute. Nostra è la tecnologia e da noi è partita l’idea. È uno studio che abbiamo già avviato per l’oncologia: lo abbiamo applicato allo sport perché voglio creare il biochip per osservare, negli anni, lo sviluppo e le variazioni del patrimonio genetico dalla nascita e capire gli influssi dell’ambiente. L’atleta è quello che sopporta il maggior sforzo, che subisce una serie di accelerazioni che non subisce una persona normale.

Quali sono le professionalità coinvolte nella ricerca?
Tutto lo staff medico del Napoli, capeggiato dal professor De Nicola, che ha sposato l’idea con entusiasmo e che adopera una metodologia incredibile ed ha raccolto già da solo un’enorme quantità di dati: a lui si rivolgono non solo calciatori, ma anche altri atleti e persino ballerini, possiede un enorme database. Poi c’è Raffaele Canonico, medico e nutrizionista dello sport ed esperto nella diagnosi precoce e prevenzione delle patologie cardiocircolatorie, Enrico D’Andrea medico fisiatra, e due validi giovani che ho portato per un po’ con me in America e che ora sono tornati in patria, Raffaele La Montagna, che lavora al Tigem di Napoli e Luigi Alfano, che collabora con il Crom di Mercogliano. Collabora con noi anche il cardiologo Michele Marzullo. Alla Temple University ho creato un programma di Biologia dello Sport di cui fanno parte tutti napoletani. Si tratta di una ricerca a 360 gradi. Abbiamo uno staff di psicologi che somministrano ai calciatori dei questionari per cogliere le loro caratteristiche psicologiche e psicofisiche. Ma ci sono anche epidemiologi e ambientalisti.

Qual è l’importanza scientifica del progetto?
Riusciremo ad avere un database completo che ci consentirà di capire la predisposizione alle patologie che caratterizzano gli atleti e che spesso li conducono alla morte e di avere informazioni sul loro stile di vita. Potremo migliorare la diagnosi e la cura di patologie, da quelle tumorali a quelle degenerative come la Sla e le distrofie muscolari, patologie legate anche all’ambiente. Per questo vedremo anche dove gli atleti sono cresciuti, analizzeremo il Dna degli altri membri della famiglia. Capiremo se i geni degli atleti sono naturali in ognuno di essi o debbano essere “allenati”. Tutto questo con visite mediche non invasive. Ci sarà un risparmio economico notevole per le società e si potranno prendere precauzioni verso le trattative dei procuratori. L’idea è di rendere poi questa tecnologia di routine sulle popolazioni.

I dati raccolti verranno comparati con analoghi dati raccolti in altri sport. Quali?
Pugilato, basket, nuoto, atletica. Sto prendendo contatti anche con la squadra di sci americana.

È verosimile che una società di calcio attui un protocollo differenziato a seconda del profilo genetico di ciascun calciatore?
Ci avviciniamo sempre più alla medicina personalizzata. I medici possono essere paragonati a dei grandi sarti: per fare gli abiti bisogna conoscere le misure di chi li indosserà. Andiamo verso una medicina in cui riusciremo a capire, dalle caratteristiche genetiche, che tipo di protocollo applicare, per attuare terapie personalizzate. Lo sport richiede un talento, ma esistono anche fattori ambientali e psicologici che, sviluppati, permettono a un individuo di diventare uno sportivo completo.

La forza di volontà e l’impegno possono vincere sui limiti genetici di un atleta?
Certo! Ne è un esempio Lorenzo Insigne. Fisicamente non ha le doti del calciatore, ma ha sviluppato una serie di qualità fondamentali. Ha una capacità di resistenza altissima, una grande forza di volontà che gli ha permesso un recupero lampo, un temperamento e una competitività molto forti, oltre al fatto di essere un atleta molto serio. Sarà interessante studiarne il profilo genetico.

Ci sono altri esempi di atleti che hanno vinto i limiti genetici con la volontà?
Tyson, per esempio, o Muhammad Ali. Ali era un atleta con doti notevoli ma soprattutto aveva la capacità di demolire l’avversario dal punto di vista mentale e di convincersi di non sentire dolore a ogni colpo subito. Ha vinto alcuni incontri non per la sua forza fisica ma per quella mentale. Epica la sfida con George Foreman. Andò in Africa ad allenarsi (l’incontro si disputò a Kinshasa, Zaire), tra la gente, e in maniera quasi maniacale ripeteva “io ti batterò, io ti distruggerò” fino a farlo diventare un mantra: “Alì boma ye”. Quando arrivò sul ring, pur non essendo fisicamente dotato come Foreman, aveva strutturato una tale personalità che Foreman non riuscì mai a demolirlo. All’ottavo round, con un pugno neanche troppo forte, lo distrusse dal punto di vista psicologico. Non è solo la genetica a fare i grandi campioni, ma anche il lato psicologico e l’ambiente che sta loro attorno.
Ilaria Puglia

ilnapolista © riproduzione riservata