Mertens e Insigne, la differenza tra le Fiandre e Frattamaggiore

Ci stiamo avviando stancamente verso la finale del 3 maggio, ultimo appuntamento che conta per la stagione del Napoli. Finale dall’esito tutt’altro che scontato, come Zambardino scaramanticamente ci sta facendo capire con i suoi racconti di avvicinamento. In ogni caso, ieri, contro la Lazio, era necessario vincere. Un po’ perché la vittoria serve sempre. Un […]

Ci stiamo avviando stancamente verso la finale del 3 maggio, ultimo appuntamento che conta per la stagione del Napoli. Finale dall’esito tutt’altro che scontato, come Zambardino scaramanticamente ci sta facendo capire con i suoi racconti di avvicinamento. In ogni caso, ieri, contro la Lazio, era necessario vincere. Un po’ perché la vittoria serve sempre. Un po’ – tanto – perché la sconfitta di Parma aveva incredibilmente alimentato un clima movimentato, come se il Napoli avesse lasciato chissà quali ambizioni sul campo del Tardini. Si è parlato più della sconfitta di Parma che del successo sulla Juventus. Misteri del calcio a Napoli, ormai insondabili per noi.

Torniamo alla Lazio. Che si è presentata al San Paolo in formazione ampiamente rimaneggiata, e guidata da un Edy Reja che ha ricevuto dal San Paolo un commovente, lunghissimo, applauso. Per poi essere abbracciato da Rafa Benitez che il giorno prima aveva speso per lui parole d’elogio e di stima.

Per l’occasione, Benitez lasciava fuori Fernandez, recuperava Britos e Behrami e teneva a riposo uno stanco Callejon oltre che Hamsik. Insigne con la fascia di capitano. Partita primaverile, senza grandi sussulti. Il Napoli cominciava benino, poi si arenava. E andava in svantaggio con Lulic che in area si beveva Albiol. Reina sventava il raddoppio laziale e da lì in poi il Napoli non subiva più. Ma serviva una magia di Mertens per riportarci in parità. Accelerazione sulla tre quarti e gran destro all’incrocio dei pali.

Mertens. Il giocatore che ha crudelmente fatto capire a tutti quanto ancora ampia fosse la forbice tra il nostro Lorenzo Insigne e un campione o almeno aspirante tale. Lo ammettiamo, è grossa la tentazione di tracciare la differenza tra un fiammingo nato al centro delle Fiandre – ah quanti ricordi per chi ama il ciclismo: il muro di Grammont, il pavè, la fatica pura – e uno di noi nato a Frattamaggiore che si sente una divinità per il solo dono ricevuto in dote: un piedino niente male. Da solo, il piede non basta. Serve l’applicazione, come in tutto. La costanza. La tenacia. E Mertens, in questo, ricorda Gianfranco Zola, quel ragazzo sardo che al termine dell’allenamento, a Soccavo, rimaneva sul campo a provare e riprovare le punizioni.

Mertens ce lo immaginiamo così. Perché è così che piazzi sistematicamente la palla all’incrocio dei pali. Non basta saperlo fare quando hai tredici anni. Devi imparare a farlo in corsa. Devi imparare a farlo quando sei stanco. Devi imparare a farlo quando sei sotto e hai paura di non raggiungere l’avversario. Devi imparare a farlo quando sei pressato. Ecco, Mertens lo fa. Il calcio è il suo lavoro. E si vede. Stoppa la palla e la difende come meglio non si potrebbe e la mette alle spalle di Buffon. In quel gesto noi scorgiamo non tanto il talento – che pure c’è – quanto l’applicazione.

Sul Mattino di oggi Maurizio de Giovanni scrive che appare ormai impietosa la differenza, in campo, tra chi segue il credo di Benitez e chi invece, per svariati motivi, sembra un pesce fuor d’acqua. Non serve essere un esperto di calcio per capirlo. Evidentemente nemmeno il chiacchiericcio che lo vuole escluso (al momento) dai 23 del Mondiale sembra scuotere Lorenzinho, che pure contro la Juventus giocò una gran partita e che secondo noi sotto la guida di Benitez potrà diventare un giocatore molto forte.

Mertens incarna un’idea professionale del calcio. Che forse ad alcuni non piacerà. Ma nello sport non tutti nascono Maradona o McEnroe; e se vuoi vincere, se vuoi progredire, devi migliorarti. Sempre. E Mertens è il giocatore del Napoli, assieme a Callejon, che più dà l’idea di provarci. Hanno segnato venti gol in due in campionato. Tanti.

Il resto della partita si chiama Gonzalo Higuain. Uno che invece un po’ si culla sugli allori. Che talvolta dà l’idea di fare il minimo indispensabile. Perché è forte e sa di esserlo. Ha siglato la prima tripletta della sua avventura italiana. Diciassette gol in campionato. Ventiquattro in stagione. E mancano ancora sei partite.

Il suo quarto gol ha tratto d’impaccio un Napoli che incredibilmente aveva rimesso in gioco una Lazio sotto di due gol e con un uomo in meno. Le amnesie della squadra di Benitez meriterebbero un approfondimento psicologico, hanno dell’incredibile. Il Napoli soffre di cali improvvisi di concentrazione, entra quasi in uno stato di trance. Resta l’aspetto più inquietante della stagione, su cui l’allenatore dovrà lavorare un bel po’. Se riuscirà a guarire il Napoli come ha fatto con Fernandez, avremo la svolta. Ma servono un bel po’ di terapie. Speriamo non tantissime.
Massimiliano Gallo

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