Il calcio di Benitez e un’idea di Napoli dura a morire

Ci siamo. All’inglese, di domenica, comincia la settimana che ci condurrà alla finale di Coppa Italia, l’ultima opportunità che ha il Napoli di Benitez per conquistare un trofeo in questa stagione. Trofeo che in Italia non ha certo lo stesso appeal che ha in Spagna o in Inghilterra; brutalmente, una competizione di serie B. Ciò […]

Ci siamo. All’inglese, di domenica, comincia la settimana che ci condurrà alla finale di Coppa Italia, l’ultima opportunità che ha il Napoli di Benitez per conquistare un trofeo in questa stagione. Trofeo che in Italia non ha certo lo stesso appeal che ha in Spagna o in Inghilterra; brutalmente, una competizione di serie B.

Ciò non toglie che una finale resta sempre una finale e, per dirla alla Catalano, vincerla è meglio che perderla. Il Napoli arriva alla sfida con la Fiorentina al termine di una stagione che non ha messo d’accordo tifosi e commentatori. C’è chi la considera una delusione (fronte Mauro-Trombetti, diciamo così); chi invece si stupisce, e non poco, dell’intensità delle critiche ricevute da Benitez (se permettete, fronte Sconcerti-Napolista) e si dichiara persino soddisfatto.

Stando ai numeri, il dato è semplice: l’anno scorso arrivammo secondi, quest’anno terzi. L’anno scorso approdammo direttamente in Champions, quest’anno dovremo giocare il preliminare. Un passo indietro, quindi. Dirà così chi leggerà le statistiche tra settant’anni. Chi segue il Napoli quotidianamente, invece, non può esimersi dal constatare che quel Napoli – che in quattro anni ha conquistato UN trofeo, la Coppa Italia – era a fine corsa. Altrimenti non sarebbero andati via né l’allenatore né l’attaccante simbolo, uno capace di segnare 104 gol in tre anni. Come si dice, un ciclo si era concluso. E con l’arrivo di Benitez ne è cominciato un altro.

L’assetto della squadra è stato rivoluzionato. Tutto è stato rimesso in discussione. La mentalità, l’approccio alla partita, la metodologia di allenamento, il modulo di gioco, la gestione del post-partita. Tutto. In due sessioni di mercato la squadra è stata stravolta. Basta dare uno sguardo alla formazione che scese in campo due anni fa all’Olimpico nella finale contro la Juventus: De Sanctis; Campagnaro, Cannavaro, Aronica; Maggio, Inler, Dzemaili, Hamsik (39′ st Dossena), Zuniga; Cavani (47′ st Britos), Lavezzi (27′ st Pandev). Sabato, probabilmente, se giocherà Hamsik (io credo di sì), in campo ci saranno solo due superstiti di quella serata. Tutto è cambiato. A partire, come dicevamo, dalla mentalità.

In tanti si sono risentiti alle parole di Benitez a Udine sulla mancanza di mentalità vincente. Difficile però dargli torto. Il Napoli di Mazzarri – cui vanno i nostri ringraziamenti per il lavoro svolto – ha sempre svolto un ruolo di outsider. Che è cosa ben diversa dall’essere candidati a un successo. E da outsider quel Napoli ha fatto benissimo. Sia in Champions che in campionato. Su entrambi i fronti, però, non appena si è avvicinato alle vetta si è sciolto come le ali di Icaro. Non siamo abituati a stare in vetta. Tutti. La società, la squadra, l’ambiente, i tifosi, i giornalisti (comprese le testate on line come questa). Per cui Benitez oggi è da alcuni messo sotto processo perché a inizio anno aveva parlato di scudetto. E poi non lo ha vinto; cattivone. Mentre Garcia al primo anno è ancora in corsa. Complimenti a Garcia e alla sua Roma, ovviamente. Così come i nostri complimenti vanno alla Juventus.

La domanda sorge spontanea: ma se una mentalità vincente non la trasmette l’allenatore, chi la trasmette? E la trasmette, certo che la trasmette. Ma non è come comprare un chilo di pane. Il Napoli quest’anno ha mostrato, in Italia, di non essere inferiore a nessuno. Siamo gli unici ad aver sconfitto la Roma due volte. I soli, con la Fiorentina, ad aver battuto la Juventus. Non a caso, appena può, Conte lancia una frecciata a Benitez. Ne sembra ossessionato. Il Napoli di Rafa è al primo anno; la fretta e l’arroganza di una tifoseria che praticamente – a parte Maradona – non ha mai vinto niente rappresentano un mistero insondabile.

Luigi Garlando sulla Gazzetta di oggi definisce gli azzurri «una squadra elegante ma senza passione, come non ti aspetti dalla squadra che rappresenta Napoli». Calcisticamente, se ne può discutere. Ha sicuramente ragione, visti i tantissimi punti perduti contro le squadre medio-piccole. Socio-antropologicamente, invece, lascia riflettere come mai l’immagine di Napoli sia sempre la stessa. Persino in un periodo in cui è napoletano il presidente della Repubblica che amò definirsi «atarassico»; o, ancora, il governatore della Banca d’Italia. Tanto per fare due esempi. Napoli deve sempre offrire un’immagine legata allo scetataviasse o al putipù. Come scrive oggi il direttore del Mattino Alessandro Barbano, prendendo spunto dalla fiction “Gomorra”, «in questo senso la crisi del Mezzogiorno è anche l’effetto di un deficit di invenzione, una stitichezza della fantasia e del coraggio di chi è chiamato a raccontarlo».

Quel che in altri termini dichiarò Benitez al Corriere del Mezzogiorno quando disse: «Napoli deve smettere di considerarsi una città speciale». Probabilmente un’impresa impossibile. Soprattutto per un semplice allenatore di calcio. Che, in fondo, sta cercando di dirci proprio questo: il Napoli (e metaforicamente anche Napoli) può giocare un calcio diverso e magari, dopo averlo assimilato, può persino vincere.

Probabilmente è troppo per uno sport. Ma è l’originalità del messaggio di Benitez ad aver affascinato il Napolista. A farne un personaggio al di là del campo da calcio. L’interprete per certi versi ideale del messaggio di uno sito di pallone come il Napolista.
Massimiliano Gallo

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