Il secondo scudetto per me fu una festa triste

Vabbè, lo avrete capito, questo è un sito di malati e di anticonformisti. E allora lo dico. 29 aprile 1990, secondo scudetto del Napoli: per me fu una festa in tono minore. Lo so, fu definito il tricolore della rivincita, soprattutto della monetina, la vittoria dell’astuzia sull’operosità. E poi la soddisfazione di vedere gli odiati […]

Vabbè, lo avrete capito, questo è un sito di malati e di anticonformisti. E allora lo dico. 29 aprile 1990, secondo scudetto del Napoli: per me fu una festa in tono minore. Lo so, fu definito il tricolore della rivincita, soprattutto della monetina, la vittoria dell’astuzia sull’operosità. E poi la soddisfazione di vedere gli odiati milanisti perdere le staffe nella fatal Verona sotto lo sguardo di Rosario Lo Bello. Guardare Sacchi andar via furente, Van Basten togliersi la maglia e sbatterla a terra, Gullit dire ai microfoni Rai che non ha vinto il migliore, sì sono cose che non hanno prezzo. E’ vero. Non sapevano perdere e lo dimostrarono pochi anni dopo nella notte di Marsiglia.
Ma lo vogliamo dire che quel Napoli era inguardabile? Che era rimasto ben poco di quella strepitosa schiacciasassi che il primo maggio del 1988 ci distrusse il cuore. Perché è inutile che ce la cantiamo, la storia del Napoli è cambiata quel giorno. Quella frattura non si è più sanata. Avremmo potuto dominare in Italia e in Europa, avevamo un attacco che era un’iradiddio e se avessimo avuto persino un gioco non ci avrebbero battuti mai. Ma quel giorno il Milan vinse tra i nostri applausi e spiccò il volo. Non si è fermato più, o meglio ha rallentato solo negli ultimi due anni. Ma ha vinto tutto.
Quell’anno, il 90, in panchina c’era Bigon. Il suo grande merito fu di riuscire a tenere ancora in piedi una squadra che assisteva muta allo sgretolamento della sua divinità. Fu la mossa geniale di Ferlaino. Capiì che quella squadra aveva bisogno di un tecnico che non si imponesse, che lasciasse fare. E così fu. Ma le ciambelle perfette non esistono. Raramente quella stagione giocammo un calcio accettabile. Forse la partita più bella la perdemmo, contro la Sampdoria a Marassi. Poi fu un florilegio di vittorie all’ultimo minuto e di gol dubbi. Uno scudetto è sempre uno scudetto, non ci sputo sopra. Ma il progetto era bello che finito. L’anno prima si parlava dell’acquisto di Zenga e Vialli, l’anno dopo arrivarono Incocciati e Silenzi. D’estate ci illudemmo con i cinque gol rifilati alla Juventus in SuperCoppa, ma poi assistemmo con le lacrime agli occhi all’inverno del Nostro che partì in panchina nella sfida decisiva di Coppa dei Campioni a Mosca. Fino a quel maledetto Napoli-Bari.
Lo so, in tanti non saranno d’accordo. Fu lo scudetto dell’amaro Ramaccioni, di Carnevale, di Fusi, di Baroni, di Alemao e delle cento lire. Ma quel Napoli che tremare l’Italia faceva si era bello che sgretolato. Fu il grande colpo di coda di un attore al termine della carriera. E a me mise addosso una grande tristezza. D’improvviso capii le frasi dei miei zii : “Non t’abituare”. E infatti è da vent’anni che abbiamo perso l’abitudine.
Massimiliano Gallo

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