La Roma e i romanisti: potere e narcisismo. Gli altri non sono mai più forti

La Roma è una cultura con le sue canzoni, la sua gente, le sue radio, qualcuna anche un po’ border line. Ma la Roma è anche un culto del potere. Con i suoi vip, i suoi banchieri, i suoi vescovi, i suoi politici di altissimo bordo, i suoi grand commis di stato, i suoi giornalisti. […]

La Roma è una cultura con le sue canzoni, la sua gente, le sue radio, qualcuna anche un po’ border line. Ma la Roma è anche un culto del potere. Con i suoi vip, i suoi banchieri, i suoi vescovi, i suoi politici di altissimo bordo, i suoi grand commis di stato, i suoi giornalisti. Tutta gente che è abituata a comandare. Non è un caso che il romanista simbolo sia stato per decenni Giulio Andreotti.

Quando Corrado Guzzanti, in “Aniene”, nella sua gag del vescovo “ateo” e maneggione di Curia Romana fa dire al suo personaggio: “Na volta era facile, alla gente a san Pietro je dicevi du’ fesserie in dieci lingue, poi tutto era finito e all’una se n’annavamo a vède a’ Roma” dà una descrizione geniale di un tratto del potere politico culturale che si raccoglie attorno a quel club.

La svolta è con gli anni di Viola, fine settanta, inizio ’80. Fine della “Rometta”. Con lo scudetto nell’82-83 e la finale di Campioni nasce una consapevolezza da “città capitale” attorno alla quale il calcio costruisce un tessuto di potere e poteri. Non a caso Viola diventa subito senatore (per la Dc, andreottiano). E saltando di qualche decennio: quando la Roma, alla fine della gestione Sensi, si trova in una situazione quasi fallimentare, sarà Unicredit a gestire debiti, rilancio, nuovi investimenti, vendita agli americani.

Solo la Juventus ha forse (forse) un potere di fuoco maggiore e una uguale capacità di “ messa a sistema” delle relazioni di potere (quello che gli americani chiamano il “klout”).  Di certo non ce l’ha l’Inter. E solo in qualche momento di gloria l’ha avuta il Milan di Mister B.

Affonda qui una mentalità peculiare: vincente anche quando si perde. Perché la Roma può essere a 30 punti dalla prima, ma per il romanista sarà sempre in corsa per il titolo. Questo “narcisismo” vincente non si è fatto solo tifo e arroganza – e Dio sa quanto sia insopportabile viverci in mezzo da 34 anni, per quanto mi riguarda – si è fatto anche “modello di gioco”.

Ho visto la Roma giocare mille volte in questi trent’anni, con modelli  diversi e decine di allenatori diversi. Una cosa li accomuna nella mia mente: loro “si piacciono”.  Ascoltateli parlare: quando la Roma perde, è perché ha giocato male. L’avversario non è mai più forte.

Un’autostima alta fino al cielo. Noi non ce l’abbiamo. E a nessun presidente padrone del Napoli, nemmeno all’ultimo, è mai passato per la mente di fare “klout” e mettere a sistema le relazioni politiche, sociali, professionali di una città pur non marginalissima (tranne che nel periodo Scotti/Maradona/Banconapoli).

Questo era il tema del mio primo pezzo sul Napolista. Questo rilancio fino a quando Gallo non mi licenzia. Del resto ci sono cantanti che cantano, cambiate la parole, sempre la stessa canzone.

Si vede che è importante.
Vittorio Zambardino

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