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Alla base di una grande squadra c’è una società manageriale, non una società umorale

Quando ho letto il fantasy firing di Riccardo Bigon, sul Napolista di giovedì per la penna di Roberto Procaccini, mi sono detto che non c’era più ragione di intervenire. Poi ho pensato che forse qualcosa da aggiungere c’è. Perché – vedete – tutto questo accanirsi su Mazzarri o sul mercato rischia di essere un circolo vizioso di chiacchiere, in cui si ripetono sempre le stesse cose, e senza costrutto. A patto che non si cominci a scavare nel solco di Procaccini e a pensare sulle cose che, su Repubblica Napoli, va dicendo forse da un anno Antonio Corbo.

Concentriamoci quindi sul “governo” quotidiano del Napoli, inteso come insieme: società, squadra, allenatore, comunicazione. Sul lavoro dell’azienda. Corbo ripete da sempre che il problema è lo schiacciamento di Bigon sull’allenatore. Il risultato è – intepreto io – che nei momenti difficili – le sconfitte, gli scazzi con i media e le altre società o la federazione – in cui a parlare dovrebbe essere la società, la comunicazione è solo dell’allenatore.


E poiché rivendico la legittimità delle ossessioni di ognuno, vi ripropongo la mia: il confronto con la Juventus. Ma avete presente gli squassi che attraversa da qualche anno quel club? E dei casini parla Conte o magari Alessio o peggio ancora il magazziniere? No. La società dirige e decide chi parla e quello che dirà. In altro linguaggio: la Juve ha una linea e i suoi manager e impiegati la mettono in atto. Cioè abbiamo una società, strutturata secondo ruoli e funzioni che sono reali, concrete, non burocratiche. C’è una rotta che tutti seguono. In questo modo – il termine è osceno ma passatemelo – la narrazione che la squadra fa all’esterno e al suo interno, verso se stessa, è omogenea (e guarda caso vincente). Siamo sempre ciò che ci raccontiamo di essere. Individui e organizzazioni.


Applicata da noi, questa impostazione impedirebbe che gli umori e – vi assicuro che è solo un esempio fra tanti possibili – le pulsioni non sempre vincenti di un allenatore si riflettano sul gruppo. Ma torniamo alla struttura sociale del Napoli nel confronto con altri.


Non è una questione di ragione sociale o proprietaria: società quotata o no, proprietà di famiglia o “pubblica”, nel senso del mercato. Si può essere quotati in borsa ed avere un presidente padrone come Lotito che fa tutto lui. E quotate come la Juventus e avere una cultura e una direzione manageriale. Dunque lo scenario di Procaccini va rovesciato: solo se c’è una direzione aziendale, chiara, responsabile e forte verso lo stesso azionista si va avanti. L’allenatore, nel Napoli, deve avere meno potere, non più potere. Altrimenti, se domani san Gennaro ci facesse trovare Messi sul mercato, non lo prenderemmo perché non ha giocato nella Reggina.


Ma che un “direttore”, quale l’allenatore è, pensi secondo il suo “mondo” e i suoi interessi è normale. Conosco giornali dove si fa carriera solo se si è piemontesi e/o si è lavorato in precedenza alla Stampa. Ma la questione per noi si propone in altro modo: De Laurentiis la pianti con la sua bipolarità umorale, per cui un mese c’è 24 ore al giorno 7 giorni alla settimana e in quelli decide quanta carta igienica si compra, minaccia giornalisti, dirotta motorini, ritira squadre, promette sfasci planetari e prende per i fondelli Platini (che poi gliela fa pagare, no, presidente?). E, al polo opposto, il mese dopo non si vede e non si sente.


Dela, cui non smetto di esser grato, crei una struttura manageriale pienamente responsabile e magari meno “ragazzina” nel carattere. Giudichi la prestazione dei manager come quella dei giocatori ma sull’arco dell’anno in base agli obiettivi possibilmente fissati a settembre e per tutto l’anno e non ribaltati tre volte prima di Natale.

Rinunci al day by day e si occupi delle strategie della società delegando la gestione a gente che sa gestire perché lo ha fatto o lo ha studiato. E già che ci siamo si renda conto che un campionato è un racconto: che si svolge in campo per 90 minuti e per sette giorni nei media. Le epopee si scrivono a tavolino: prendendo gli sceneggiatori giusti.
Vittorio Zambardino

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