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Al via sul Napolista le fantastiche avventure di Harry Bruscolotter

Il signore e la signora D’Angelo, di viale Speranzella numero 4, erano fieri di essere una coppia perfettamente normale, e volevo pure vedere. Erano in effetti le ultime persone al mondo da cui ci si potesse aspettare qualcosa di strano. I misteri proprio non li potevano alliggerire. Erano arrivati a Napoli dall’entroterra, originari di Riscinziello, paesino dove i bambini facevano sempre i capricci, forse per questo non avevano voluto figli. Due persone semplici. Lui portava un nome bizzarro: Giotti. I genitori gliel’avevano cambiato quando si accorsero che aveva il dono di dipingere benissimo, ed era pure velocissimo, tanto che disegnava come se fosse due pittori in uno. Lei, più semplicemente, si chiamava Meri. Con i risparmi messi da parte per la vecchiaia, Giotti aveva aperto una ferramenta, sua antica passione da quando era stato assunto in una fabbrica di trapani, cosa che per la verità all’inizio aveva creato un malinteso. Quando infatti era arrivata la lettera d’assunzione, lui aveva scambiato una minuscola per una maiuscola, perciò era salito sul primo treno per la Sicilia, e una volta a Trapani s’era messo in cerca dell’azienda che secondo lui doveva dargli lavoro. L’equivoco fu chiaro solo dopo diversi mesi, quando nel frattempo grazie alla sua competenza calcistica aveva finito per trovare un contratto come direttore sportivo della squadra della città. Quando il presidente chiese al nuovo ds Giotti D’Angelo di darsi da fare per comprare un attaccante, lui suggerì subito il nome di Meccia.
«E chi cazzo è questo Meccia?», replicò il presidente.
«Meccia è la migliore punta per il Trapani», fu la replica con cui Giotti lo convinse.

Grazie a questa insuperabile competenza, col calcio, aveva finito per fare soldi. Tanti, tantissimi soldi che adesso gli garantivano una serena vecchiaia accanto a sua moglie. Avevano un rapporto meraviglioso, mai troppe moine, ma sempre grande gentilezza. Ogni volta che lui la interrompeva, sorrideva dicendo: “Scusa Meri”. E lei felice di ascoltarlo, gli dava la parola rispondendo: “Dimmi Giotti”. Ogni volta era così quando quei due parlavano. Sembrava di tenere accesa la radio di domenica pomeriggio: “Scusa Meri”, “dimmi Giotti”.

Ma né Giotti né Meri potevano sapere che quella notte di Halloween stava per rivoltare le loro vite. Arrivò all’improvviso a bussare alla porta un uomo alto, magro, molto vecchio a giudicare dall’argento della barca e dei capelli, così lunghi che li teneva infilati nella cintura. Indossava una tunica, un mantello color porpora che strusciava per terra e stivali dai tacchi alti con le fibbie. Dietro gli occhiali a mezzaluna aveva due occhi luminosi e scintillanti, il naso lungo e ricurvo. Un pennellone. L’uomo si chiamava Andreus Silenzi. Alla coppia consegnò un orfanello di un anno chiedendo di prendersi cura di lui, gli disse solo che il bambino si chiamava Harry Bruscolotter, e poi sparì.
Harry cresceva in casa di questi zii manifestando strane attitudini. Aveva solo due anni quando con la forza del pensiero strappò di mano da Meri un formaggino, dicendo al formaggino: “Mio”. Giotti invece si divertiva a insegnargli i nomi degli oggetti di casa in napoletano, “ripeti insieme a me”, diceva, e l’orfanello ripeteva: “‘o martiello”, “‘e chiuove”, “‘a chiave inglese”.

Col tempo sempre più spesso l’uomo finiva per sorprendere il piccolo a giocare nello sgabuzzino degli attrezzi della ferramenta, finché un giorno aprì la porta e scoprì che nello stanzino ogni cosa era illuminata, tutto volava, i martelli galleggiavano nell’aria, i chiodi danzavano sospesi, le chiavi inglesi cantavano “Hey Jude”. Un immenso prodigio diretto dal bimbo, che in ginocchio al centro della stanza era come il demiurgo di questo cosmo di ferraglia, da lui animato con un semplice gesto, facendo ruotare un’asta metallica. E quando Harry Bruscolotter vide entrare lo zio, sollevò la spranga magica, spostò la mascella e scandì: «Palo ‘e fierro».

Il Ciuccio (1. / segue)

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