La poesia può tornare solo con l’esonero di Mazzarri

Caro Max, ho letto il tuo articolo su questo Napoli che non ai suoi tifosi non regala più la poesia di cui i tifosi, per definizione, si nutrono; e fino al primo pomeriggio ho pensato a come commentare adeguatamente il tuo pezzo, dato che hai scoperchiato il vaso di Pandora (il mio vaso di Pandora, […]

Caro Max, ho letto il tuo articolo su questo Napoli che non ai suoi tifosi non regala più la poesia di cui i tifosi, per definizione, si nutrono; e fino al primo pomeriggio ho pensato a come commentare adeguatamente il tuo pezzo, dato che hai scoperchiato il vaso di Pandora (il mio vaso di Pandora, ma a giudicare dai commenti anche quello di altri tifosi, di altri “malati” come te e me).Alla fine mi sono reso conto che le cose da scrivere sarebbero state troppe per un commento ad un articolo del Napolista, e quindi ecco questa lettera (alle scuole elementari l’avrei chiamata “lettera aperta”).


Caro Max, domenica in Nisida non ci siamo visti; e quindi inizio col raccontarti il mesto e grigio pomeriggio di campionato nel nostro mesto e sgarrupato San Paolo. Come ben sai, io ho il privilegio di sedere accanto a “quelli del Te Diegum”; e per me andare allo stadio significa innanzitutto fare salotto, nel pre-partita, con quelli del Te Diegum. Sai anche che a me piace sempre, con la sfrontatezza quasi maleducata dei miei nemmeno trent’anni, provocare e sfrocoliare un po’ i miei saggi Maestri; puoi ben immaginare con quale stato d’animo, io anti-mazzarriano di lunga data e pubblicamente dichiarato (addirittura tacciabile di eresia, come forse ricorderà qualche lettore del Napolista che abbia memoria dei miei pochi pezzi), sia arrivato ieri, dopo che l’Inter e Stramaccioni sono andati a Torino per giocarsela, e hanno battuto la Juve nonostante uno degli arbitraggi più scandalosi della storia del pallone nostrano. Avrei voluto dire ai mazzarriani di ferro: avete visto come si va a giocare allo Juventus Stadium, avete visto cosa vuol dire avere una mentalità vincente, nonostante 36 anni d’età e giocatori che tutti vedevano già in pensione? Però non l’ho fatto, perché alla fine ha prevalso anche in me quella che tu chiami la fantasia: quell’emozione irrazionale che perfino a me, tifoso sempre e comunque scettico e criticone, ieri pomeriggio chiudeva lo stomaco, alla sola idea che vincendo saremmo stati sempre lassù, attaccati alle prime due.


Intendiamoci: in Nisida, prima delle partite, ti ho sempre detto che allo scudetto quest’anno non ho mai creduto, e lo confermo. L’unica cosa che ho detto domenica, subito prima dell’inizio della partita è che il nostro obiettivo reale è il terzo posto, e che ci dobbiamo guardare le spalle dalla Fiorentina. Mi sono sentito rispondere dal Professore, il più inguaribilmente romantico tra quelli del Te Diegum, che sono nato vecchio, che non è possibile che a vent’anni io non sogni in grande, che io non sogni lo scudetto. Beh, ma io sono nato a metà degli anni Ottanta, e chi è nato negli anni Ottanta è nato già disilluso, ed è ontologicamente disilluso (ma questo è un altro discorso). E poi i miei mentori, tra i maestri che hanno fatto il Te Diegum, sono i più cinici e i più scettici; non sono certo l’ottimista Professore né l’entusiasta Vate: io non sono illuminato dalla loro stessa fede nella Squadra, dalla fede nel fatto che quella in campo sia la migliore delle formazioni possibili, e che quello in panchina sia il migliore degli allenatori possibili. Li invidio, esattamente come chi non ha fede in Dio invidia le certezze di chi è illuminato dalla fede in Dio.


Io la fede nel Napoli di Mazzarri, che pure per un periodo fugace avevo avuto intensa e luminosa, l’ho persa quando il Napoli di Mazzarri si è spento, quando ha iniziato a non avere più fame, a non essere più la squadra cannibale che due anni fa (due, non dieci) lottava fino all’ultimo istante, e vinceva le partite in maniera incredibile all’ultimo respiro. Ricorderai, caro Max, il mio esordio sul Napolista: era all’incirca un anno fa; dopo una tua esortazione pre-gara a provare a scrivere qualcosa, ti inviai un pezzo che iniziava con una lunga e forse noiosa citazione del “Principe” di Machiavelli, di cui mi servii indegnamente per sostenere che il Napoli non aveva più lo stesso coraggio che la fortuna aveva costantemente premiato l’anno precedente. E parlando di Napoli mi riferivo al presidente, al direttore sportivo, all’allenatore.


Questo pezzo mi è tornato in mente ieri, quando la rabbia per il pareggio del Torino ha iniziato a sbollire. Dopo un anno, quelle parole mi sembrano più che mai attuali: perché, a un certo punto, ci si è seduti su quello che era stato fatto, perché non si è osato di più, perché non ci si è voluti lanciare capo e collo in un nuovo, ambizioso e magari solo onirico progetto vincente? Perché si è smarrita la fantasia? Caro Max, capirai che col tuo pezzo di stamattina hai toccato le corde a me più care.


Della partita di ieri, vista allo stadio, ti dico solo che è stata una pena. Difendere l’1-0 contro una squadra modesta, dopo aver trovato il gol al settimo minuto, è stato avvilente. Il gol del Toro, in fondo in fondo, da ventennale frequentatore di stadio, io me lo aspettavo. Anzi, ti dirò che all’inizio del recupero ero quasi stupito dal risultato, a maggior ragione dopo che avevamo sciupato miseramente tre/quattro contropiedi (pardon, ripartenze); e pensavo a quanto fosse preziosa quella vittoria, in fin dei conti non la prima vittoria risicata e forse un po’ rubata di questo inizio stagione, che nel giro di qualche secondo sarebbe però stata buttata via da un giocatore, Aronica, che anche dalla tribuna, anche senza i primi piani della tv, palesemente entrato in campo totalmente scarico e distratto.


Al gol di Sansone tutti i miei compagni di battaglia si sono ammutoliti. Io ho perso la voce ad inveire, nell’ordine, contro i giocatori, contro chi li compra e contro chi li fa giocare. Quell’emozione irrazionale di inizio partita è svanita, evaporata, scoppiata come una bolla di sapone. Giusto le improbabili telefonate a Radio Marte, ascoltate in macchina, mi hanno ridato un po’ di buonumore. Ma anche quel po’ di buonumore è svanito, non appena ho ascoltato in diretta l’intervista a Mazzarri.


Ti racconto l’ultima cosa, caro Max. Appena uscito dallo stadio, mi ha chiamato il più cinico tra i cinici di quelli del Te Diegum, ieri rimasto a casa. Mi ha detto che per tutta la partita aveva pensato a me e al freddo che mi stavo prendendo per assistere a quello spettacolo indegno; e che l’allenatore, se fosse un uomo, si sarebbe dovuto prendere le proprie responsabilità e dimettersi quella sera stessa.


L’ho sottoscritto ieri a caldo, e lo confermo oggi a freddo: caro Max, se noi tifosi vogliamo ritrovare la poesia di cui tu parli, la fame che avevamo fino a due anni fa, la voglia di lottare e di vincere; se questa squadra e questa società vogliono arrivare a gennaio limitando i danni, nella speranza che al mercato si riesca a trovare qualche pezza a colori per una rosa non all’altezza, soprattutto nei ricambi; se il presidente vuole ricompattare uno spogliatoio che mai come oggi pare disunito e anarchico, demotivato ad esempio da una gestione carente e fallimentare del turnover (il “fuori tutti dentro gli altri” con cui Corbo oggi definisce la geniale invenzione di coppa di Mazzarri); se si vuole riprendere a correre senza essere più prigionieri del rivoluzionario modulo delle ali, con le ali che non corrono più, e con gli unici due fuoriclasse che sembrano solo due grandiose cattedrali nel deserto; se vogliamo ricominciare ad essere il Napoli audace ed affamato, che regala sogni ai suoi tifosi affamati e malati (anche vedere l’Elfsborg fu emozionante, perché per l’anno prossimo sognavamo la Champions; quest’anno chi si emoziona all’idea che giovedì c’è il Dnipro?), la soluzione mi pare una sola.


Ovvero congedare un allenatore già da tempo spento, stressato, confuso, e con la testa chissà dove (a qualche panchina che lui giudica più importante di quella del Napoli?); ringraziarlo calorosamente per tutto quello di straordinario e di innovativo che ha fatto fin qui a Napoli; fare tutto quello che si riesce quest’anno; risistemare finalmente la società, dotandola dello spessore e della competenza da cui le grandi società di calcio oggi non possono prescindere; e dall’anno prossimo impostare un nuovo progetto, porsi dei nuovi obiettivi a lunga scadenza. Obiettivi ambiziosi. Perché solo gli obiettivi ambiziosi magari si rivelano poi vincenti; perché solo chi osa alla fine magari vince; perché chi si accontenta è mediocre, e di certo dalla vita otterrà poco.

Aurelio, per favore, ricompari. E portaci la buona nuova: dicci che noi malati possiamo tornare a sognare. Torna a darci il pane senza il quale non viviamo, l’aria senza la quale non respiriamo.

Andrea Manzi

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