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Io, mio padre,
il Napoli e la Juventus

Mio padre era un appassionato di calcio e un grandissimo tifoso del Napoli. Lucano di nascita, napoletano di adozione, conservò della sua terra il carattere taciturno, duro, votato ad un’etica del sacrificio e del lavoro, della vita vista come una strada piena di sassi da raccogliere e mettere da parte, per spianarsi il cammino senza fermarsi perché ti fa male la schiena, senza chiedersi dove porta, senza protestare.
Del napoletano  aveva l’orgoglio e l’Amore per questa grande città dove ha scelto di far nascere i suoi figli e la passione per i colori del Napoli. Quando eravamo piccoli non riuscì a trasmettere questa passione a mio fratello, che ha quasi tre anni meno di me ma che è quasi sempre stato poco interessato allo sport. E allora finì per portare me allo stadio e condividere con me questo che era ed è stato sempre uno dei suoi grandi amori.

Parlava poco papà, ed aveva la capacità incredibile di saper essere al tempo stesso calmo e collerico. A volte mi riconosco nei suoi scatti improvvisi, che non lasciano scampo a chi ci circonda, duri da sopportare, pieni di sacro furore. Era così lui, e, seppure con un carattere molto diverso, sono così anch’io. Silenzioso per natura, quando parlava con me spesso parlava di calcio. Riusciva sempre ad essere obiettivo e a non farsi quasi mai trasportare dalla passione, inquadrando le pecche del nostro gioco, i nostri limiti, ma esultando anche alle grandi giocate dei solisti che di volta in volta hanno indossato la maglia azzurra. Mi raccontava delle gesta di Zoff da portiere del Napoli e dell’enorme ingiustizia di negargli la nazionale, salvo poi convocarlo non appena passò alla Juve. Ecco, papà questo non lo sopportava. Non tollerava che ci trattassero male, che usassero Napoli come una “carta sporca”, che fossimo l’oggetto delle angherie di arbitri e alti poteri. Questo proprio lo mandava in bestia.

Da piccola amavo Krol, il primo ad incantarmi con la maglia azzurra. Papà quando parlava di lui agitava la mano come a dire “Tiè tiè, e che ti combina st’olandese”, e si esaltava per le sue giocate come e quanto me, affermando che il nostro tulipano azzurro fosse un direttore capace di trasformare quella banda ‘e musica che era allora il Napoli in una grande orchestra. Quando arrivarono gli argentini, Bertoni, Diaz, ed io andavo ad assistere agli allenamenti, mi raccomandava sempre di non abbracciarli. “Hanno avuto l’epatite, non te lo dimenticare”, mi diceva… Sapeva bene che se avessi avuto modo l’avrei fatto lo stesso. Lui non era tifoso da autografo e fotografie. Gli bastava vederli lottare sul campo.

Quando arrivò Diego divenne pazzo di gioia. Ricordo che seguimmo tutta la trattativa anche in vacanza… e quando diedero finalmente la notizia, papà, finalmente disteso per rilassarsi, ripeteva con gli occhi che gli brillavano “E’ nostro, è nostro”. Solo un’altra volta gli ho visto fare questo: con l’edizione straordinaria del Mattino di Napoli uscita il 10 maggio del 1987 papà se ne andò in giro per il quartiere sventolando il giornale e gridando “E’ nostro! E’ nostro!”, tutto bardato d’azzurro, come non aveva MAI fatto in vita sua e non avrebbe fatto mai più. Con gli anni la mia passione per lo sport mi ha portato anche a scriverne, anche se non di calcio. Non mi sarei mai aspettata che un‘altra edizione di un altro giornale, con ben altre notizie, avrebbe avuto l’onore di essere sbandierata a destra e a manca da papà come quella dell’edizione straordinaria del Mattino di qualche anno prima: fu quella del mio primo articolo firmato. Un pezzo di trenta righe sulla pallanuoto femminile suscitò in lui quasi la stessa esaltazione del primo scudetto. Era così papà, non sapevi quasi mai cosa pensasse, non comunicava con le parole, e poi era capace di gesti indimenticabili come quello del giornale.

L’arrivo di Maradona lo fece tornare allo stadio. Non poteva perdersi il giocatore più forte di tutti i tempi, diceva. Raccontava sempre che quando lavorava ancora a Milano aveva visto giocare Pelè in un incontro Italia-Brasile, partita in cui ‘O Rey fu marcato da Trapattoni. “Non c’è paragone tra i due”, diceva, “Pelè non si è quasi mai misurato col calcio europeo e i ritmi di allora erano molto più blandi di quelli del calcio di oggi. Non c’è dubbio che Maradona sia meglio ‘e Pelè”. Allo stadio però non volle portarci me se non per due o tre partite. Assistere in diretta tv alla tragedia dell’Heysel lo aveva convinto che non sarebbe stato sicuro portarmi in uno stadio sempre pieno… e fu così che io Diego lo vidi solo agli allenamenti (quando nei primi anni tornavo a casa e raccontavo esaltata che avevo visto Diego palleggiare per un quarto d’ora con un limone lui mi riportava sulla terra ricordandomi che se si fosse allenato di più forse avremmo vinto qualcosa…), e a un paio di partite di quel Napoli, la finale di andata della Coppa Italia contro l’Atalanta (e lì gli venne quasi un infarto alla vista di quanta gente ci fosse allo stadio… ma non poteva più riportarmi indietro), e l’ultima partita di Diego a Napoli nel 1991.

Ha sempre condiviso con me la rabbia estrema per il comportamento di Diego fuori dal campo di gioco. Se Diego fosse stato aiutato ad uscire dal tunnel della droga, sarebbe durato molto di più come calciatore giocando per molto più tempo ad altissimi livelli. E se lo avesse fatto noi avremmo vinto molto di più, e forse il nostro Napoli non sarebbe manco fallito. Per Diego abbiamo sempre avuto questo sentimento di amore-odio, amore sconfinato per quello che ci regalava e che rappresentava per noi, per la città di Napoli, e al tempo stesso “odio” perché da solo si autodistruggeva negandoci la possibilità di godere ancora delle sue giocate, delle sue “malatie”, dei suoi gol, delle sue vittorie. E abbiamo sempre sofferto nel vederlo discendere la china della vita verso un suicidio che a un certo punto sembrava inevitabile. Abbiamo gioito insieme nel vederlo ripreso in tempi recenti, in forma e convinto di poter ancora vincere nel calcio. Ecco, Diego per noi è stato questo.

Ma il Napoli dopo Diego ha conosciuto un declino costante tornando in quel limbo della media classifica per poi conoscere il baratro della retrocessione fino ad arrivare al fallimento. Tre anni dopo la partenza di Diego mi abbonai alla curva B. Papà non andava più allo stadio da quando non c’era più Lui, e ci andai io. Ho vissuto insieme al Napoli il periodo peggiore della nostra storia calcistica. Ci sono sempre stata, anche quando scendevamo in serie B, e poi in serie C, ho pianto per il nostro fallimento. Papà diceva che Ferlaino era riuscito ad uscirsene pulito pulito da quel pasticcio, e aveva lasciato noi con una mano avanti e l’altra dietro a leccarci le ferite e a veder sparire il nostro Napoli. Furbo fino alla fine, Ferlaino. Vennero i Naldi e i Corbelli, poi il fallimento. Infine De Laurentiis e il ritorno ai campi di calcio. E poi il ritorno al calcio che conta.

Quando sentiva la gente mugugnare sul livello di gioco del Napoli papà predicava la calma. In questa città non si può fare niente, diceva: ogni volta che qualcuno vuol costruire qualcosa di buono c’è sempre molta gente disposta a distruggere tutto alla prima difficoltà. Fa bene De Laurentiis ad andare per la sua strada, fa bene a non farsi ricattare dalle curve, fa bene a fare di testa sua e a non ascoltare altri che il suo staff. E farebbe bene anche a far sentire subito la sua voce, perché ai poteri del calcio non sta bene un Napoli vincente… Il Napoli è cresciuto, purtroppo di pari passo con il male di papà, fino ad arrivare a quella domenica di ottobre di due anni fa in cui Mazzarri fece il suo esordio sulla panchina azzurra a Napoli.

Andai allo stadio come ogni domenica ma il giorno dopo papà non c’era più. Lui non ha potuto conoscere il nostro Napoli attuale, non ha potuto gioire per i gol del Matador, non ha potuto esultare per la conquista della Champions. A dieci giorni dalla sua scomparsa gli portai i miei primi fiori al cimitero… biancazzurri: era il 31 ottobre. Quella sera battemmo la Juventus a Torino. Tornai a trovarlo e gli raccontai mentalmente la partita… che ti sei perso, papà. E da allora, quante volte l’ho pensato. Però ogni volta che mi nasce sto pensiero riesco poi ad immaginarlo lassù, seduto al club calcistico più grande del Paradiso, in compagnia di tanti altri tifosi come lui – ancora silenzioso, sornione, ma con gli occhi accesi ad ogni gol di Cavani, ad ogni guizzo del Pocho, a commentare sottovoce “Ecco là che si toglie la giacca” al gesto scaramantico del mister… a vederlo meravigliarsi e sorridere, sì, papà, sorridere, di fronte alla tardiva passione di mio fratello per il calcio, nata quando tu non c’eri già più… e perché no, a guardarmi mentre piango e rido sugli spalti del San Paolo o davanti a una tv, a pensare che un Napoli così quanto gli sarebbe piaciuto. Oggi come due anni fa aspettiamo di giocare con la Juve. Spero di ritrovare un fiore biancazzurro da portargli come allora, per ricordargli che in fondo, anche da lassù, il grido di esultanza di quel club Napoli Paradiso ad ogni gol degli azzurri si sente… eccome. Ciao papà. E sempre forza Napoli.
Donatella Sapone

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