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Il primo fu addio fu quello di Sergio Clerici, el Gringo. Avevo nove anni, e piansi

Quando il Napoli vendette Sergio Clerici avevo nove anni e piansi. Era l’estate del 1975. Il Gringo era reduce da due stagioni con la maglia azzura, nelle quali aveva collezionato ben cinquantasette presenze su sessanta, e ventinove goal. Al suo posto arrivò Beppe Savoldi, che aveva sei anni in meno, i capelli ricci e i baffoni da operaio. Fu il primo calciatore pagato due miliardi di vecchie lire. La stampa del nord si scatenò. Il colera era arrivato due anni prima, insieme alle storie inventate di sana pianta… e a una partita di cozze dalla Tunisia. Avevo sette anni. I miei ricordi si limitano al panico che scoppiò in città, al terrore che travolse mia madre, alle lunghissime file per la vaccinazione.

Ero un puntino insignificante in quel milione di napoletani che in soli sette giorni dovette adempiere alle obbligatorie misure di prevenzione. Il numero dei morti non fu mai accertato, ufficiosamente attestato fra i dodici e i ventiquattro. Meno di un migliaio i ricoverati. La stampa soffiò sul fuoco, affermando che era moralmente illecito pagare tanto un calciatore, quando la città aveva un piede ben piantato nel passato. Obiezione legittima, se non fosse che l’ingegnere Corrado Ferlaino era il presidente del Napoli, non il sindaco. Un imprenditore, anche se allora la parola evocava più il concetto di sfruttamento che quello del benefattore che “dava lavoro”. Il nuovo significato si sarebbe imposto a partire da un lustro dopo, con la sconfitta di Mirafiori del 1980.

Ma da bambini si dimentica in fretta e due anni dopo, per me, la cessione di Clerici fu ben più drammatica del colera. Savoldi restò quattro anni a Napoli e non ci fece fare il previsto salto di qualità, attestandosi sulla stessa media di segnature del Gringo. Fu motivo di ostentata soddisfazione nei confronti di mio padre, che invece di Beppe Goal era un entusiastico sostenitore. Forse perché avevano gli stessi baffi, ma Giuseppe Savoldi da Gorlago, in provincia di Bergamo, non girava in Cinquecento, né si alzava alle cinque per il turno delle sei in fabbrica. Presumo non avesse nemmeno la tessera della Fiom e del Pci, come invece mio padre, che io chiamavo babbo come Pinocchio.

Quel che conta ai fini di questa vicenda, è che già a nove anni evidenziai con dolorosa acutezza i sintomi di una malattia che mi sarei portato dietro tutta la vita. Ero e sono un nostalgico. Mi risultava e mi risulta intollerabile l’idea che le cose finiscano. Accadeva quando terminava uno sceneggiato televisivo. Canzonissima, che sul tema dell’addio incentrava drammaticamente la puntata finale. Anche se poi durò venti anni, chiudendo i battenti in quello stesso 1975 nel quale Clerici andò via. Nello stesso anno mio padre vendette la Cinquecento. Mi sembrò essere al centro di una congiura. Il passaggio alla 127 fu il suo personale salto di qualità, quello che non ci avrebbe fatto fare Savoldi. Io, tuttavia piansi. E piansi ancora più forte quando, per un assurdo scherzo del destino, una mattina d’estate, andando al mare a Mondragone, incrociammo proprio lei, targata NA 65. Non potevo crederci che la guidasse un altro, che non ci fossimo noi a poggiare il culo sui suoi minuti sedili di plastica, che non fosse più mia.

Due anni dopo, era il 1977, la generazione di Autonomia Operaia assaltava il cielo, ma per me fu ben più drammatico l’effetto di “Isotta”. “Isotta, Isotta, dài che ce la fai, strombetta metti la marcia e vai”, cantava Pippo Franco e io, trattenendo le lacrime perché avevo ormai undici anni e piangere era “da femmine”, non potetti evitare di pensare alla Cinquecento blu, che non rividi più. Naturalmente fu un colpo al cuore anche quando mio padre passò poi alla Fiat Uno. Avrei pianto quando Calaiò, dopo essere stato relegato in panchina, sbagliò un rigore e si congedò dal San Paolo, anche se ormai ero vecchio. Chissà se i vecchi possono piangere senza che sia un fatto “da femmine”.

Crescendo, ho mantenuto lo stesso approccio con la vita. Quando finirono le medie mi dispiacque come per le elementari e come mi sarebbe dispiaciuto, poi, per il liceo. L’università no, perché mi sono fermato a due esami dalla laurea nel 1992, ma per non essere da meno, mi sono iscritto di nuovo quest’anno a quarantasei suonati. Non vi risulterà, a questo punto, difficile capire il rapporto che ho intrattenuto con le donne importanti della mia vita. Nove su dieci, mentre stavo con quella del momento, mi mancava quella precedente. Soprattutto se ero stato io a lasciarle. Anzi, le donne della mia vita mi hanno sempre lasciato loro, esauste per il mio comportamento. Mi sono quasi sempre attribuito le colpe che avevo. Questa è una cosa che mi fa onore. Mi viene naturale ricostruire obiettivamente una vicenda. Dopo, però, mai durante. In ogni caso, mi struggevo nel dolore per averle costrette a lasciarmi e quindi a vivere tutta la vita senza di me. “Tutta la vita senza” è un’affermazione che ancora oggi mi atterrisce, quando penso che davvero potrei non rivedere più quegli occhi allungati, bellissimi sotto i capelli neri. Hanno spazzato via ogni nostalgia, se non quella determinata dalla loro stessa assenza.

Ieri sera mi hanno intristito i fischi al Pocho Lavezzi. Per quanto possa dire a me stesso e al mondo che conta solo la maglia, che i calciatori vanno e vengono e l’azzurro della casacca resterà per sempre, che sono tutti mercenari, beh dico una mezza bugia. Io mi affeziono ai giocatori e Lavezzi e quello al quale mi sono legato di più in questi anni. I guizzi e le serpentine con la difesa dell’Inter incollata al suo culo a San Siro, resteranno indelebili nel pantheon della mia memoria. Pensare che l’anno prossimo potrei vederlo con quella stessa divisa nerazzura mi rende gravoso il respiro. L’ipotesi che possa andare all’estero mitiga solo un po’ la sensazione. I fischi li ho vissuti male. Se fossi stato allo stadio, ovvero se Maroni con la sua tessera non mi avesse costretto all’esilio, non avrei inneggiato al Pocho. Il cameratismo di curva, di centinaia di trasferte ostili, me l’avrebbe impedito, ma certo dalla mia bocca non sarebbe uscito alcun sibilo. Amo Lavezzi e la sua storia di elettricista che, quasi per caso, sfonda nel mondo del pallone.

Tutt’altra storia quella andata in onda allo Juventus Stadium ieri. Io odio la Juve, perché puoi amarla solo se la tifi. Solo l’amore può rendere gradevole l’arroganza, la prepotenza, i favori del Palazzo, che la vecchia Signora ha sempre ostentato con la protervia tutta sabauda di sentirsi “L’Eletta”. Perciò, non tifando Juve, la odio. Tuttavia ho da sempre un debole per Alex Del Piero. La scelta di andare in B e non altrove, dopo la retrocessione a tavolino di Calciopoli, è una di quelle storie di una volta. Avrei voluto che Alex fosse il capitano del mio Napoli. Così come vorrei che Ezequiel restasse e si appuntasse quella fascia fino alla fine della carriera. Attenzione però, le cose durano o finiscono sempre in due. Infatti, Alex che alla Juve ha dato tutto, dalla Juve ha ricevuto la possibilità di vincere. L’ha seguita in B, ma anche in centinaia di partite vittoriose che gli hanno permesso di imporsi come campione.

L’anno prossimo chissà quale maglia indosseranno Del Piero e Lavezzi. Ma se il primo potrà dire di aver dato tutto, ricevuto molto ed essere stato messo alla porta dalla squadra che ama. Lo stesso non potrà fare lo sgusciante ex elettricista argentino. Non perché in questi cinque anni non abbia sputato anima e sangue per i nostri colori, chi lo nega è in malafede. Ma perché a Napoli i calciatori raramente hanno la possibilità di vincere qualcosa. C’è riuscito Diego, non solo in virtù di un talento inimitabile, ma anche per aver imposto a Corrado Ferlaino una politica che andasse oltre gli acquisti miliardari ma una rosa incompleta. Ecco, sarebbe bello se lo stesso avvenisse fra Lavezzi e De Laurentiis, e che quel triangolino tricolore tornasse a ornare le nostre maglie. Intanto, ripartiamo da quel simbolo circolare con gli stessi colori. A Roma domenica andiamo per vincere. Poi a qualcuno diremo addio, e credetemi a me dispiacerà anche per Grava e gli altri partenti. Altri resteranno. Io vorrei che fra questi ci fosse anche il Pocho Loco, insieme a un Napoli vincente.

E se non chiedo troppo, rivorrei indietro anche altro. Anzi due, bellissimi sotto i capelli neri.

Rosario Dello Iacovo

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