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E grazie ad Hamsik ho fatto pace col mio portiere “spione”

Quando ho sentito i primi botti esplodere mi si è appannata la vista. Eravamo sull’1-0. Cavani aveva finalmente cambiato tiro e il rigore era entrato in porta. Il sacrificio di Lavezzi era servito a qualcosa. Le mani in faccia di De Laurentiis e il pensiero che un rigore per noi non è sempre oro che cola, ma può trasformarsi in un incubo. Invece è entrato. Da lì è stato solo conto alla rovescia, mentre la città fremeva per non scoppiare fino al novantesimo. Ma non ce l’ha fatta nessuno. Così, quando Hamsik ha fatto la malattia è stato tutto un fuoco d’artificio. Sarei voluto scendere subito in strada. Ovviamente mi sono trattenuto. Ma poi, dopo quella coppa alzata, ho aperto la porta…

Il primo che ho incontrato è stato Filippo, il portiere. “Dottò” mi fa “ce l’abbiamo fatta”. Aveva le lacrime agli occhi e mi sono accorto che luccicavano anche i miei mentre lo abbracciavo. L’ho sempre sopportato poco, Filippo, per come scruta nelle buste della spesa cercandoci tracce della vita sentimentale di un single, per quello sguardo curioso nel consegnarmi la posta, secondo me se la guarda pure in controluce la busta in cui mi arrivano notizie e bollette dall’esterno. Ma ieri sera Filippo ed io eravamo una cosa sola, amici per sempre.

Da lì in poi ricordo poco. La ragazza con i capelli al vento sulle spalle dell’amico, quella sì, che aveva un culo da sballo e due occhi da farti desiderare solo di baciarla per la felicità. E quel tipo con il torace scoperto e avvolto nella bandiera del Napoli. E le macchine, i clacson, la felicità tangibile di una città intera. Mi sono chiesto cosa ci fosse dietro alle finestre. Quanti stessero festeggiando con birra, spumante, vino, sorrisi e baci. Quanta vita dietro i vetri. Ho guardato tutto quello che c’era in strada, volti, corpi, movimenti stralunati ed ebbri. Cercato di fissare ogni particolare nella memoria.

Ogni tanto mandavo messaggi con il telefono per condividere la vittoria, ho provato a chiamare gli amici andati a Roma, ma non ha risposto nessuno e allora mi sono immaginato la felicità, la gioia, l’adrenalina che ti pervade quando sei in una città che non è la tua ma che domini per una notte intera. E poi ho camminato, camminato per ore. Ho voluto vedere tutta la città in festa. Avevo il motorino sotto casa e ho dimenticato di prenderlo. Perché non pensavo di voler andare così lontano. E dovunque andavo, botti e urla, gruppi di ragazzi giovanissimi al loro primo trofeo, tutti con la bocca piena di ‘O surdato nnammurato, finalmente quella canzone tornava di nuovo solo nostra ed era come bere dalla coppa tutti quanti assieme. Non c’erano più disgrazie, lutti, disperazione, stenti, nulla, solo gioia.

Ho pensato che sarebbe stato bello fissare quel momento per sempre, che quella notte potesse durare per sempre. Ed è stato allora che ho deciso che non avrei dormito, che tornare a casa sarebbe stato un sacrilegio. Che era una notte da passare tutta ad occhi aperti. Ho girato per le strade e ho visto il pullman del Napoli. Hamsik con quella strana parrucca in testa, come se si sentisse orfano della cresta. Ho partecipato della felicità di una città. E sarà stata pure una coppa secondaria, ma per me è stato un momento bellissimo. Da incorniciare e mettere in bacheca. Proprio come quella Coppa.

Stamattina sono tornato a casa che erano le cinque. I piedi doloranti e le gambe a pezzi. Ero pure sudato perché tutti quelli che incontravo me li abbracciavo e mi mettevo a ballare con loro. Filippo era ancora là a sfogliare un vecchio album di fotografie. Mi sono avvicinato per capire di cosa si trattasse e sono rimasto a bocca aperta. Un album tutto azzurro pieno di foto di Maradona, del vecchio Napoli, ritratti di festeggiamenti dello scudetto, sia del primo che del secondo. Filippo giovane con una sciarpa legata in testa a cavalcioni di un motorino, in piedi, con in mano la bandiera del Napoli in una città degli anni Ottanta. Ha alzato gli occhi verso di me. Commosso ha messo l’album da parte e si è avvicinato al fornellino da campo della portineria. Ha preso la caffettiera e, sorridendo, mi ha detto “si accomodi, dottò, le metto su il caffè”.

Giovanni Maddaloni

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