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C’è anche un po’ di Napoli sul cielo d’Europa

Era il 15 settembre del 1984. Sul cielo di Stamford Bridge, un vento freddo rincorreva grosse nuvole provenienti dall’Atlantico e dal Mare del Nord. Il Chelsea ospitava il West Ham in uno dei classici derby londinesi. Io ero arrivato qualche giorno prima, dopo un viaggio d’altri tempi che mi aveva condotto per la prima volta in Inghilterra. In treno fino ad Amsterdam. Poi una notte di traghetto in direzione Harwich. E ancora treno, per novanta miglia, fino alla città dei miei sogni da adolescente. Dove finalmente mi stavo trasferendo. Avevo compiuto diciotto anni il cinque dello stesso mese, e Londra mi apparve come una visione improvvisa con la sua sterminata periferia. Casette a schiera una attaccata all’altra, fitte, per chilometri e chilometri. Mattoni rossi e un’alba color magenta, che il ricordo fa ancora accapponare la pelle. Ventotto anni dopo. Non c’erano cellulari, non esisteva internet, nei supermercati non trovavi cibo italiano. Erano i vecchi tempi: quelli che se volevi vedere il mondo dovevi prendere e partire.

Il Chelsea era tornato nella massima categoria dopo cinque anni di purgatorio in second division. Un club con un grosso seguito popolare, da West e South London fino al Surrey e al Kent, che però aveva vinto poco nella sua storia. Uno “scudetto” nel lontano 1955, la FA Cup nel 1970 e la Coppa delle Coppe l’anno dopo, battendo in finale ad Atene il Real Madrid. Erano gli anni di Peter “The Cat” Bonetti, lo straordinario portiere di origini italiane; l’inesauribile centrocampista Ron “The Chopper” Harris; Peter Osgood, centocinquanta reti in trecentottanta partite con la maglia dei Blues.

Stamford Bridge era uno stadio poco inglese, con la pista a quattro corsie per le corse dei cani a dividere gli spalti dal perimetro di gioco. Lo Shed semicircolare, coperto a metà da una tettoia. Lo Shed, l’equivalente della nostra curva, era il cuore della tifoseria Chelsea. Fu proprio un ambizioso progetto di ristrutturazione dello stadio a gettare il club sul lastrico. Costringendolo a cedere le sue stelle e alla retrocessione in Second Division, dove rischiò addirittura di sprofondare in terza serie.

Quel giorno di settembre, il Chelsea s’impose nettamente per tre a zero. Io vidi la mia prima partita inglese di una lunga serie. Toccai con mano l’esistenza degli hooligans. La Icf del West Ham, la più famigerata gang del periodo, contro gli altrettanto noti Headhunters del Chelsea. Capitanati da Steve Hickmott, “Hicky”, una leggenda delle gradinate e della “firm” al seguito della nazionale. L’Heysel e Hillsborough erano di là da venire. Le leggi speciali della Thatcher pure. In curva si stava in piedi. E negli stadi si faceva un tifo d’inferno. Entro qualche mese avrei visto il Boleyn Ground, Upton Park, il vecchio Den del Millwall, e le maestose torri di Wembley che chiudevano Olimpic Way.

La rinascita dei Blues ha un nome, anzi due: Ken Bates e Ruud Gullit. Il primo comprò il club per la cifra simbolica di una sterlina, impegnandosi in una lunga battaglia legale contro la società immobiliare che aveva acquistato il suolo sul quale sorgeva lo stadio. Vinse. Era il 1992. Il secondo, in veste di allenatore-giocatore, iniziò ad assemblare una squadra competitiva che aveva nell’ex napoletano Gianfranco Zola la sua stella. Nel 1997 arrivò la FA Cup. Poi Gullit fu sostituito da Gianluca Vialli, che aggiunse alla bacheca del club: la League Cup, la Coppa delle Coppe e la supercoppa europea, battendo ancora una volta il Real Madrid per uno a zero.

Ma l’anno della vera svolta è il 2003, quando Roman Abramovich acquistò il Chelsea per centoquaranta milioni di sterline. Il resto è storia recente. Il secondo scudetto nel 2005, cinquant’anni dopo il primo. Il terzo nella stagione successiva. Una FA Cup e due League Cup. La finale di Champions League persa contro il Manchester United ai rigori, con John Terry che scivola al momento di battere quello che avrebbe permesso ai Blues di alzare la coppa. Ma la questione era solo rimandata a ieri sera, sabato 19 maggio 2012, quando il Chelsea per la prima volta nella sua storia si issa sul tetto d’Europa.

E il Napoli? La storia dei Blues fornisce molte indicazioni utili agli azzurri. Una sorta di road map per poter completare il progetto di crescita avviato dopo il fallimento. Riuscirà De Laurentiis a eguagliare Abramovich? Non è dato saperlo e per ora la politica dei due club sembra molto distante in termini di investimenti. Tuttavia la finale di ieri, fra due squadre che il Napoli ha affrontato a viso aperto, conferma la bontà del nostro impianto. Possiamo dire con orgoglio misto a rammarico che il Napoli ha battuto i campioni d’Europa. Tre a uno, e un quasi goal di Maggio, che forse avrebbe chiuso la questione qualificazione al San Paolo. Poi sappiamo tutti come è andata a Stamford Bridge. E chissà se Di Matteo non avesse sostituito Villas Boas come sarebbe finita.

Ma lasciatecelo dire: ieri sul cielo d’Europa c’era anche un po’ d’azzurro partenopeo. Come il mare di bandiere che sventolerà stasera all’Olimpico di Roma per un trofeo certo minore, ma in una sfida contro la Juve che da sola vale il prezzo di una vittoria. Quella Coppa Italia che non è la Champions, e nemmeno la FA Cup – il trofeo più antico del mondo -, ma che pur manca dalla nostra bacheca da venticinque anni.

Rosario Dello Iacovo
tratto da http://rosariodelloiacovo.wordpress.com/2012/05/20/col-chelsea-ce-anche-un-po-di-napoli-sul-cielo-deuropa/

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