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Di Matteo, solo all’apparenza un monaco tibetano

Ha gli occhi cinesi, il sorriso giapponese e il capo rasato di un monaco tibetano. Ed ecco a voi Roberto Di Matteo, Bob per gli inglesi, italiano nato in Svizzera da genitori abruzzesi. Prende il posto di Villas-Boas esonerato da Abramovich alla guida del Chelsea. Di Matteo era il “secondo” del tecnico portoghese.

Il nostro uomo (42 anni, sette più di Villas-Boas) nasce a Sciaffusa nell’omonimo cantone della Svizzera settentrionale, più vicina alla Germania.

Sciaffusa sembra un nome siciliano, ma ristabilisce la sua eccellenza elvetica nella versione tedesca di Schaffhausen, famosa per le cascate del Reno che precipitano da 23 metri (la metà del salto delle cascate del Niagara) però su un fronte di 150 metri, le più estese d’Europa.

È un paese che, in tempi meno fatui, ha dato i natali a uno scultore e a un esperto di canti gregoriani. Poi si sono aggiunti due calciatori: il portiere Stephan Lehman e l’ormai notissimo Di Matteo che nasce nel 1970 con lo scudetto sulle maglie del Cagliari di Giggiriva ed era pronta per la tumultuosa spedizione verso gli altipiani aztechi la nazionale di Ferruccio Valcareggi, il testone triestino, spaccata dalla rivalità fra Mazzola e Rivera.

Roberto Di Matteo è il calciatore elegante che dopo avere razzolato bene in club rossocrociati, lo Zurigo e l’Aarau, battitore libero al tempo dei battitori liberi e del “verrou”, il primigenio catenaccio dell’austriaco Karl Rappan molto praticato nei cantoni svizzeri, vincendo addirittura un campionato con l’Aarau, venne a predicare in Italia, con le referenze di mediano di qualità, ingaggiato dalla Lazio di Sergio Cragnotti, l’ex contabile della Bomprini di Colleferro che s’era comprato il club romano per 25 miliardi di lire prima di avvitarsi nel default della Cirio e scomparire.

Cragnotti dei primi tempi d’oro lo gratificò di un ingaggio di 240 milioni a stagione (1993), a rispettosa distanza, tanto per chiarire, da un top-player come Baggio che metteva in banca un miliardo di lire l’anno.

Poiché la vita di Roberto Di Matteo è una continua sorpresa, alla Lazio gli toccò di sostituire il pazzesco Paul Gascoigne, uno dei tanti talenti britannici affogati nell’alcol. Entrato in squadra, Di Matteo ne divenne un titolare fisso vantando la precisione svizzera nei passaggi e la serietà delle origini abruzzesi.

Giocava da centromediano metodista, ruolo inventatogli da Dino Zoff e confermatogli da Zdenek Zeman quando il boemo prese il posto del Dinosauro asceso, a sua volta, alla presidenza della Lazio.

Dettava i tempi di gioco, scrivevano i giornali. Di Matteo me lo ricordo in una disgraziata domenica all’Olimpico contro il Napoli subissato di gol. Cinque nella porta di Batman Taglialatela con Matrecano, Rincon, il Condor Agostini, l’avvocato Pecchia e il non famoso Luzardi, difensore bresciano, nella squadra azzurra diretta tra mille dolori da Vincenzo Guerini, esonerato quella stessa domenica per far posto a “rigore c’è quando l’arbitro fischia” Vujadin Boskov, direttore tecnico con Canè in panchina. Tempi fantastici.

In quella partita, Di Matteo fu il migliore in una Lazio con Boksic, Casiraghi, Fuser, e Marchegiani in porta, che dispensava gol a tutti, nel fumo delle sigarette di Zeman.

Era diventato un “signor giocatore” al quale il presidente Zoff rinnovò il contratto per un miliardo e 200 milioni di lire (1995) e, intanto, Arriguccio Sacchi lo chiamò nella nazionale che, senza Baggio, Signori e Vialli, bocciati dal Khomeini di Fusignano, naufragò agli Europei in Inghilterra con Del Piero e Zola degradati a comparse e con il 33enne Donadoni che era andato a giocare con i MetroStars di New York. Storie di altri tempi per ogni collezionista di orrori.

Roberto Di Matteo, escluso qualche volta da Zeman, capì molte antifone del calcio italiano e si aprì all’emigrazione, ingaggiato dal Chelsea per 4,9 milioni di sterline, oro che colava nella Lazio d’oro di Cragnotti, e uno stipendio di un miliardo e mezzo di lire (1996).

Si apriva l’epoca delle migrazioni italiane all’estero. Se, negli anni ‘70, Bob Vieri in Australia e Giorgio Chinaglia in America avevano tracciato il solco, furono poi molti quelli che lo difesero lasciando lo Stivale. Quando Di Matteo giunse al Chelsea c’erano già Vialli e Zola e lo allenava Gullit il trecciolone. Non c’era ancora Abramovich.

Per Londra partì improvvisamente, a vent’anni, Gennaro Scarlato di Tavernanova, una frazione di Casalnuovo nella pianura napoletana, che Lippi e Ulivieri giudicavano un prodigio e che il Chelsea, nel 1997, considerò un buon investimento (tre miliardi per quattro anni). Gennarino resistette tre giorni sotto la pioggia londinese. Gli mancavano il sole e il mare di Posillipo, la casa di via Tasso, la mamma e la fidanzata, e tornò indietro per giocare, anni dopo, nel primo Napoli di De Laurentiis.

Intanto, nel Chelsea, Di Matteo giocava alla grande. Vinse la Coppa delle coppe (1998) con Vialli e Zola e contribuì a riportare in alto i Blues. Una triplice frattura, interessante tibia e perone, e dieci operazioni gli stroncarono la carriera a 31 anni.

Rimase in Inghilterra e cominciò a fare l’allenatore in una cittadina del sud-est dell’isola guidando il Dons nella quarta serie britannica e conquistando subito una promozione. Si reputò all’inizio più fortunato che bravo. Passò l’anno dopo al West Bromwich che trascinò a tambur battente nella Premier League, un altro successo.

Esonerato alla seconda stagione con la squadra pericolante, Di Matteo tornò al Chelsea, dov’era di casa, designato quest’anno allenatore in seconda di Villas-Boas. I tifosi dei Blues l’adorano per il suo passato di giocatore. Ma non è un tipo facile.

Villas-Boas era un ermetico sognatore, che pensava di rifondare il Chelsea svecchiandolo, e perciò attirandosi l’odio della “vecchia guardia”, e assumendo due spagnoli (Mata e Romeu), un brasiliano (David Luiz) e un portoghese (Meireles) per dare un “gioco nuovo” alla squadra. Ha fallito.

Non era nemmeno un gran simpaticone. Nipote di un visconte portoghese e bisnipote di un barone, il 35enne André Villas-Boas, più giovane di Zanetti e Del Piero che giocano ancora, mostrava un aristocratico disappunto per la mala annata del Chelsea dopo essere stato l’allievo e l’assistente di Mourinho, anche all’Inter, e perciò definito The Special Two, vincendo poi in un solo anno tre trofei col Porto, il suo piedistallo di gloria.

I giornali inglesi lo hanno tartassato dedicandogli ripetuti requiem in assoluto anticipo sull’esonero.

Roberto Di Matteo non è neanche lui una “pasta” facile. Troppo sicuro di sé e “un disastro dalla testa ai piedi”, scrivono i tabloid londinesi. Il “Sun” ha già sentenziato: “All’inizio sarà sopportato dalla squadra, poi con i primi risultati negativi farà la fine di Villas-Boas”.

La sua tattica preferita è attaccare in cinque e difendere in cinque.

Mimmo Carratelli

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