Domenica sera è una partita che per me vale tre punti come le altre. Non avendo alcun tipo di ostilità verso i locali non ho alcun tipo di pathos. Posso guardare le partite del Napoli, andare allo stadio ai tempi del migliore di tutti, andarci per il Napoli e basta, leggere libri che lo riguardano, frequentare siti, parlarne dal mattino alla sera, sentire il rumore profondo dell’esultanza allo stadio dei goal, vero, un rumore simile a una vena che scoppia, un rumore simile a ictus bestiale, scrivere pezzi su Maradona, scrivere per un anno sul Napolista, trovare gradevole la radio quando ci sono l’Ilaria e Renata Russo, ascoltare in religioso silenzio le rumorose trasmissioni locali. Tutte. Dall’inizio alla fine. Non c’è nulla da fare, il Napoli e i suoi colori nel bene o nel male non sono mai stati una tentazione.
Napoli-Juve è una gara come tante. Perché non odio il Napoli e perché dovrei poi. Il Napoli è mio padre, mia moglie, i miei cari, gli amici dei quindici anni, la festa dello scudetto che guardai come Robinson guarda il suo Venerdì, le persone che incontro ogni giorno, il mio presente, le abitudini, il tempo che mi resta ancora, il posto che mi ha visto iniziare e quello che mi vedrà finire, il sangue del mio stesso sangue. Non provo alcun tipo di rivalsa sociale, personale, sentimentale verso la squadra del luogo al quale appartengo e dunque la vittoria della mia squadra non avrà alcun tipo di valore aggiunto. Come me la pensano in pochi oppure tanti, non so, non ha importanza. Come me la pensa dall’altra parte Ilaria Puglia alla quale ho proposto di fare un gruppo trasversale di indifferenti su Facebook chiamato “Quelli che Napoli-Juve yawn”. Perché si, perché basta, perché è una rivalità posticcia, allucinata. Perché se in me vedono Torino, a Torino non ci sono mai stato. Perché se in me vedono la Fiat, non ho neanche l’auto. Perché basta dar da mangiare alla sociologia da strapazzo, agli analisti della trippa per gatti e ai demagoghi sentimentali. Non c’è Nord e Sud, non c’è potere contro impotenza, schiavi dalla parte del padrone contro schiavi delle circostanze, niente di tutto questo. È molto più semplice. Ci sono gli azzurri e i bianconeri. C’è la prima in classifica e una sua diretta rivale ed inseguitrice. In palio non c’è quella cosa astratta del riscatto ma quella cosa concreta dei tre punti in palio.
La prima volta che ho sentito parlare del Napoli fu alla radio, un Napoli-Juve vinto a tavolino da noi per intemperanze dei padroni di casa. Ricordo il radiocronista raccontare un Antonio Juliano che cerca di calmare la folla, ricordo di aver pensato che se per la città non c’era niente da fare, per la sua squadra era pressappoco la stessa cosa. Come dicono in qualche canzone, una montagna troppo alta da scalare. Senza attrattive particolari per chi era affamato di fascino e di sogni da sognare.
All’epoca c’erano solo due squadre per noi bambini innocenti, il Toro e la Juve. Il Napoli non esisteva. Passai alla Juve quando vidi una notte di Coppa Campioni in Germania Castellini inseguire qualcuno e poi Graziani mettersi in porta. Qualcuno disse che bello, il cuore Toro, gli arbitri, il cuore. La sfiga e frattaglie. Io invece pensai che schifo, e questi quando ritornano in alto. Magari tra altri cinquanta di anni. Per fare cosa poi, le comparse imbrogliando la gente col vittimismo. Meglio la Juve col suo catenaccio a Bilbao in finale di Coppa Uefa, Benetti e Tardelli a minacciare a casa loro i poveri baschi con le sole dita, vi facciamo un culo così.
Il Napoli non esisteva, era un fastidioso, noioso e incomprensibile rituale domenicale di mamma e papà, era da qualche parte nello strano mondo di quegli strani adulti. Sapevi che aveva un posto sull’album dei calciatori, aveva la maglia di un certo colore, si arrangiava. Non c’è mai stato alcun tipo di rivalità da parte mia nei suoi confronti. Neanche fosse stato un parente infermo da accondiscendere bonariamente. I miei ricordi di Napoli e Juve sono del tutto neutri. Quando ci fu il duello scudetto a tre tra Juve, Napoli e Roma dovetti consolare mio padre distrutto dall’autogoal di Ferrario con il Perugia registrando sul mio diario la sua domenica da incubo. Ricordo di aver scritto che lui stava male e aveva tenuto il broncio al mondo. Mondo che però con la Juve prima era perfettamente in ordine. Ricordo poco altro. Il me ne fotto di Alvino dopo i rigori Bergonzi, la prova tv che la sconfitta non nobilita niente, che i vinti non sono migliori di noi. L’assembramento davanti al Vesuvio per Platini prima che arrivasse Diego, la Napoli eterna che cerca padroni tra un padrone e l’altro, Michel prima sogno proibito poi quel signore d’accento francese con problemi di coppia.
L’unico conto aperto che ho è con Mazzarri. Quel sabato sera di qualche anno fa. Quella rimonta da incubo, il “Suiciro” il giorno dopo su Tuttosport, la partita rivista due volte su Juve Channel per capire cosa fosse successo. Il Napoli è da due anni una grande squadra e merita rispetto. Mi piaceva di più l’anno scorso, quando era più cinico. Meno parolaio. Però c’è ancora lui, Mazzarri, a tenere in piedi tutto l’insieme. E’ quello che dico ai miei. Domenica sera dobbiamo farvi fuori nel solo modo che conosca. Li battiamo.
Li battiamo e facciamo esonerare Mazzarri. Il loro autolesionismo farà il resto. E non è questione di essere napoletani o del Nord.
Io sono napoletano, c’era più Napoli quel sabato sera con Ferrara e Cannavaro ed il sottoscritto che nel Napoli calcio dei Datolo, Hamsik e il toscano in panchina. Che ancora mercoledì sera mi veniva da tremare istintivamente nei panni di quei crucchi ignari. Ignoranti in Mazzarri e rimonte.
Io sono napoletano, un giorno mi piacerebbe sentir festeggiata la Juve con un Oi vita, oi vita mia. Perché è come la pizza. Perché è una canzone d’amore. E’ una canzone di un soldato alla sua innamorata e appartiene a chi se la prende. Io sono napoletano, la mamma di Agnelli è napoletana. Moggi più napoletano di me.
C’è il calcio.
Domenica sera.
Per tutto il resto, c’è il lunedì.
Cari napoletani che dirvi. Viviamo insieme. Siamo una cosa sola. Io sono voi e voi siete me. I vostri problemi sono i miei problemi, il vostro cervello è il mio. Non m’aspetto perciò riguardi e favori.
Viviamo nello stesso letto di rose e di spine. Fuori dal letto è diverso. Nessuna pietà.
Vincenzo Ricchiuti