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Dobbiamo vincere per vendicare Buriani (io c’ero)

Ruben Buriani. Biondissimo, tecnicamente rozzo, classico ciuccio di fatica, arrivò al Napoli nell’estate dell’85. Aveva già trent’anni, il meglio lo aveva dato al Milan. Fu un colpo minore, perché in quella trionfale sessione di mercato prendemmo gente come Giordano, Renica, Pecci, Garella. Presi a detestarlo subito, alle prime uscite non azzeccava un passaggio, era una specie di Gargano in giornata perennemente storta. Ma in quell’estate, scusate la digressione personale, feci amicizia con un ragazzo milanese e interista. “A novembre vieni da me, ti invito a vedere Inter-Napoli”. Mantenne la promessa, era il 10 novembre ’85 e il Napoli veniva dalla meravigliosa vittoria con la Juve, sconfitta dalla leggendaria punizione del Maestro.

Milano mi sembrò la caricatura di se stessa: nebbia, pioggerellina, gente che andava di fretta. All’ingresso dello stadio mi bloccarono perché avevo una mela. Gliela lasciai senza rimpianti, avevo fretta di arrivare sugli spalti, non avevo mai visto uno stadio diverso dal San Paolo. Rimasi a bocca aperta, il prato era vicinissimo, la gente era tutta seduta. C’erano almeno ventimila napoletani, in una curva tutta azzurra un’orchestrina suonava i classici della nostra musica, sembrava una festa, altro che “Noi non siamo Carabinieri”. Quando cominciò la partita lo stupore aumentò, nonostante la bolgia si sentivano le voci dei giocatori e il rumore dei calci al pallone. Primo tempo veloce, campo pesante, partita fisica, Lui ci provò da fuori area ma Zenga era veramente forte.

Il secondo tempo è un’altra musica: Giordano, mio idolo personale, si lancia in un’azione solitaria, supera anche Zenga e appoggia in porta, ma un difensore respinge sulla linea. Passano due minuti e Giordano, incazzato come un pitone, pennella un pallone a centro area. Il Destinatario lo stoppa di petto e in un decimo di secondo lo calcia dritto nell’angolino. Mi ritrovo abbracciato a tre ragazzi, uno era appena emigrato, prima della partita mi aveva raccontato la sua storia. Mentre esultava aveva le lacrime agli occhi.

Ma l’Inter reagisce, colpisce un palo, ci schiaccia in aerea. Incredibile ma vero, Buriani giganteggia, rincorre tutti, strappa palloni, fa ripartire l’azione. “Correvo, correvo e non sbagliavo mai”, racconterà mesi dopo. A metà del secondo tempo c’è un pallone vagante sulla trequarti, Buriani è in vantaggio, il loro terzinaccio Mandorlini entra da assassino, oggi i raffinati direbbero “col piede a martello”. Buriani urla di dolore, quel grido entra nelle orecchie degli spettatori, Buriani si è spaccato una gamba, esce in barella, i compagni si mettono le mani nei capelli, Mandorlini viene solo ammonito. Buriani non si riprenderà mai più, è l’ultima sua partita in serie A.

Qualche minuto dopo il nostro Bertoni dà una spintarella ad Altobelli in piena area. Rigore non inventato, ma generoso. Brady pareggia. Nel finale Caffarelli spreca l’occasione del 2-1. Ma per me, da quel giorno, Inter-Napoli significa alcune cose: 1) “Milano ogni volta che mi tocca di venire, mi prendi allo stomaco mi fai morire” (cit. Dalla, 1979, ed. Rca). 2) Mandorlini è un bastardo. 3) Vincere a San Siro è quasi impossibile. 4) Non bisogna giudicare i giocatori troppo in fretta. 5) Il calcio, ripensando a quegli abbracci, è molto di più del calcio.

Quindi domani, Cavani o non Cavani, stanchezza o no, vorrei che i nostri vincessero per vendicare Buriani e per far piangere di nuovo quel ragazzo lì, che ormai sarà un padre di famiglia.
Giulio Spadetta

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