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Panchina vuota al bar Novecento

L’uomo col cappello da ciclista, che sta parlando quando entro nel bar Novecento, ha un atteggiamento serafico: “io vorrei vedere se Mazzarri fosse vostro figlio, o vostro fratello. Fa il professionista, guadagna x, arriva uno e gli dice: io ti do x più y, e per cinque anni. Poi ti do la facoltà di sceglierti i giocatori che vuoi, e ti metto su una delle panchine più prestigiose del mondo, sulla quale per di più puoi andare solo meglio di chi ti ha preceduto, che sta a rischio di rimanere fuori dalle coppe. Ma che dovrebbe dire?”
Lino è furibondo, e conta gli spiccioli così nervosamente che continuano a cascargli nel cassetto: “e io ti dico che, se fosse mio fratello, gli direi di restare. Perché la via vecchia per la nuova non si cambia, perché qua è amato e riverito, e se sbaglia due partite di seguito non viene messo in discussione su tutti i giornali e le televisioni, perché conosce l’ambiente e i giocatori che danno tutto per lui. Gli conviene mettersi in gioco, così presto? Non varrebbe la pena di godersi i frutti di questo campionato stupendo? Dotto’”, dice, rivolgendosi al sottoscritto, “voi che ne pensate?”
Allargo le braccia e faccio per rispondere, ma Gianni si intromette dalle nebbie della macchina del caffè: “e no, scusate, dotto’, ma le cose si devono dire: se ne vuole andare per la sua carriera o perché non ha ricevuto le garanzie tecniche adeguate dal presidente? Perché se è per il primo motivo, per carità, è legittimo. Così come sarebbe legittimo per il presidente rispondere: senti, bello, ti è piaciuto firmare il contratto triennale l’anno scorso? E se andavi una chiavica, e il Napoli si salvava all’ultimo, tipo il Parma, e io ti dovevo cacciare, non ti pagavo per tre anni standotene bello comodo sul divano di casa tua o in tv a fare l’opinionista? E allora mo’ butta il sangue e onora il contratto. Se tra due anni ancora ti vogliono, allora vai dove vuoi tu. Ma prima, nella comune convenienza, lavora e lavora meglio possibile.”
“Il problema vero per noi”, interloquisce Antonio, sbattendo un hamburger innocente sulla piastra e interrompendomi di nuovo, “è se il motivo è l’altro: se Mazzarri, cioè, ha detto al presidente che per ripetere, o tentare di ripetere, il campionato che sta per finire e per fare una figura decente in Champions servono almeno quattro o cinque giocatori di livello internazionale, e il presidente ha risposto che non se ne parla proprio, che lui più di tanto non ci vuole mettere, allora la questione è un’altra e il problema è nostro.”
Faccio per dire la mia, ma l’uomo col cappello da ciclista è più veloce: “qualsiasi sia la questione, il fatto è che a questo punto, mi pare chiaro, la panchina è vuota. E allora, che si fa?” Lino risponde, deciso: “innanzitutto, chi non vuole restare se ne vada pure, con tanti auguri che gli capiti quello che è successo a Quagliarella!” Momento di gelo, poi la precisazione: “… cioè che faccia un bellissimo campionato con tanti gol e successi ma un punteggio inferiore al nostro, sia chiaro. Poi, non credo che ci voglia la mano di Dio per trovare un bravo allenatore che voglia fare la Champions a Napoli, no, dotto’?”
Saprei cosa dire, se non si intromettesse Gianni: “che io poi questo Mazzarri bravo non l’ho mai visto. Cioè, un grandissimo motivatore, sia chiaro, e con uno staff tecnico di prim’ordine, preparatore atletico davanti a tutti. Ma poco duttile, un solo schema di gioco, e sempre gli stessi giocatori, ma come si fa a far giocare Aronica e non Ruiz o a tenere Yebda in panchina? Insomma, in campo ci vanno i giocatori, no, dotto’?” Per me risponde Antonio, che continua a schiaffeggiare hamburger sulla piastra: “appunto, ci vanno i giocatori. E i giocatori servono, almeno quattro oltre i due guaglioni, Matavz e Fernandez: due centrocampisti titolari, una riserva del Pocho e una di Dossena che in organico non ci sono. Gente forte, non promesse o vecchi ruderi, gente pronta subito, perché abbiamo la Champions da fare. E’ overo, dotto’?”
Ma a quel punto sono già uscito, con la testa confusa e privo di certezze più di prima. Però mi sono preso un grande caffè, e di questi tempi non mi pare poco.

Maurizio de Giovanni, 3 maggio 2011

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