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Quella frase in via Orazio
che Lui guardava all’alba

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(dal Venerdì di Repubblica).    Trenta ottobre 2010, ci siamo. Maradona avrà 50 anni. Si era promesso un regalo: festeggiare nella città dei suoi trionfi e dei suoi misteri. Napoli lo attrae, ma l’Italia lo spaventa. Il campione che ha fermato il tempo, almeno sette vite in mezzo secolo, non ha mai bloccato l’orologio del fisco. Come corre. L’uomo negli anni ’80 meno popolare solo del Papa, è stato dichiarato dalla Cassazione nel 2007 evasore fiscale. Gli interessi aumentano di 2,03 euro al minuto,127 in un’ora, 3.068 ogni mattina. Nel giorno del compleanno toccherà 34 milioni 313mila euro.
Niente più festa a Napoli. Gliel’aveva organizzata Salvatore Bagni, suo compagno nei sette anni di Napoli, oggi funambolo tra mercanti e opinionisti. L’idea: una partita al San Paolo, in campo la squadra del primo scudetto. Girava già la giostra degli affari: sponsor e tv, biglietti prenotati, in allarma bagarini e ambulanti. Subito magliette e souvenir. L’apoteosi del kischt. Poi lo stop. La finanza aveva pignorato già due roley, gli orecchini vinti poi all’asta dal palermitano Miccoli, i cachet Rai per le visite alla Carrà. Meglio una festa con filmati dell’epoca, concerto di Tullio De Piscopo ed Enzo Gragnaniello con Gianni Minà al Plebiscito, medaglia e niente soldi.
La partita no. Immaginate il divario. Ieri e oggi. Gli agili campioni del 1987, ciacuno con 23 anni in più, tutta la squadra che ingrassata di quasi tre quintali. Benedetto fisco, ha sventato un evento malinconico, giocatori come clown, più circo che calcio, e il gran finale dei finanzieri, che festa sarebbe mai stata per l’evasore Maradona? "Un evasore innocente", si ribella Perdersoli, il commercialista che ha difeso per anni Maradona, rovinato da un portiere per un eccesso di tifo e omertà. Respinse la notifica. <em>"Sconosciuto, sloggiato,m irreperibile"</em>. Quindi? <em>"Maradona non ha potuto difendersi e chiudere il contenzioso tributario come Valentino Rossi, Ornella Muti, Luciano Pavarotti, Dolce&Gabbana"</em>. Il Napoli, in posizione simmetrica, si è difeso per quello strano contratto da 7 miliardi di lire annui, parte in ingaggio al giocatore, parte ad una società inglese per diritti di immagine. E non ha pagato nulla. Lo stesso, Careca ed Alemano. "Un evasione innocente, ecco lo scandalo". C’è anche un libro. <em>"I paradossi del fisco, da Maradona al Signor Nessuno"</em>. Ma niente è cambiato. In questo amaro 2010, l’anno degli ultimi inganni per quel distinto signore di mezz età che stava sbancando il mondiale in Sudafrica. Con barba accademica come l’ultimo Marlon Brando, felice e vincente.
Poi, l’addio. Brusco. Lui che stringe fra le dita il rosario della Virgo de Lucan e tutta la sua storia ormai sgranata, che smette di segnare otto volte la croce, amen. È il 3 luglio, finisce il mondiale 2010 ed anche il Ct costruito un anno prima dall’Argentina e demolito in un’ora e mezzo dalla Germania, 4 gol "duri come 4 pugni di Alì", dirà Diego, con gli occhi lucidi e lo sguardo assente di un pugile alle corde. Con la Germania aveva vinto e perso già due finali. Vittoria nell’anno migliore della sua carriera, Città del Messico 1986. Ingiusta sconfitta a Roma, la notte dell’ira e dei fischi, la vendetta del pubblico italiano, Diego aveva escluso l’Italia nella semifinale di Napoli. Già, Napoli. Sette anni, due scudetti, Coppa Uefa e Supercoppa, 105 gol. Napoli, la sua città. Dove Diego è un amore indiscusso. Mai dimenticato né tradito. Dove si chiamano Diego 4 bambini su 10 tra i nati dal 1984 in su. Dove vive un altro Diego Armando Maradona, figlio di Cristiana Sinagra e suo, una relazione mai confessata, ma che ha minato il suo matrimonio con Claudia Villavane come tutta la sua vita, già turbata dalle prime sniffate di coca nella reggia di Pedralbes, quartiere esclusivo con la residenza del re di Spagna a Barcellona.
Droga scoperta solo a Napoli dai carabinieri di Vittorio Tomasone, oggi generale a Roma. A Diego la regalavano ogni notte a Posillipo nelle cannucce colorate in un chiosco di bibite, l’afferava e s’infila nelle sue fosche notti, giovani dei clan con vasche da bagno immense a forma di ostrica e battone nordafricane rintracciate per telefono ai Quartieri Spagnoli. Quando Diego si gonfiava di coca per tirar mattina. Affondava nella sua fatica di vivere. Come Pantani, un mito lasciato solo. Maradona è il calcio, una leggenda ancora oggi, ma il 17 marzo 1991 la coca spunta nella provetta del doping, dopo Napoli-Bari, un addetto dimentica di urinare al suo posto. Il 5 aprile abbandona Posillipo di notte e torna in Argentina. Più che vergogna, una fuga dal suo inferno.
S’illudeva. "Non sei tu che cerchi la droga, è lei che cerca te", dirà in uno squarcio. Tocca i 143 kg, "il suo cuore è quello di un ottantenne", dice un medico a Punta de L’Est mentre lo scarica l’ennesima ambulanza. Un cuore stanco che aveva attraversato 4 mondiali, "un cuore forte come quello di Coppi, solo 40 battiti al minuto", come aveva invece spiegato al Napoli dopo la prima visita nel 1984 un cardiologo, Federico Gentile, scuola Houston, oggi alla Meyo Clinic di Rocester. Maradona provò anche a cercarlo. Torna a Napoli per visitare imprenditori, leader politici, qualche malato grave. Maradona, secondo i parametri delle compagnie Usa, con quel cuore poteva stipulare polizze sulla vita per milioni di dollari. Invece.
Dal 1991 cade e si rialza, avvilito e spergiuto, promette e ricade. Si era ripreso nel 1994, ultimo mondiale da calciatore. Ma l’urlo dissennato, quel faccione felice e feroce ripreso in tv dopo il gol alla Grecia, inquieta gli americani. Temono che sia l’involontario testimonial del cartello colombiano di Medellin: dimostra che con la coca si vince. Possibile? Due crocerossine, gelide come agenti federali, lo portano per mano dal campo alla sala doping. Verdetto annunciato: fuori. Quel mondiale poteva salvargli carriera e vita, peccato. È il 1994, the end, partita finita a 34 anni. Riocomincia uno dei suoi disperati tramonti. <em>"Lo faccio per le mie figlie, voglio curarmi per la felicità mia e della mia famiglia, parto in cerca di aiuto"</em>, polimizza con il presidente argentino Menem, suo amico che però <em>"non aiuta che incappa nella droga"</em>.
Non gli perdonano i tifosi del Boca Juniors lo scudetto perso con il quinto rigore fallito. Una polemica e via. Vola verso la sua nuova Lourdes, entra come in un santuario nella clinica svizzera di Montreuxs. Sembra guarito: <em>"Ero paralizzato, non riuscivo neanche a prendere l’acqua per mia figlia che piangeva, devo tutto a Claudia, mi chiudeva in una stanza,io urlavo, urlavo, prendevo un sonnifero e un altro giorno era finalmente passato"</em>. Amici e Cuba, Fidel Castro e il medico personale Alfredo Cahe contro tutti e sempre accanto a lui, golf e cure all’Avana ma anche in Svizzera, si risolleva sempre fino al 18 aprile 2004, l’ultimo drammatico ricovero alla "Sacre Coeur".
Esce dalla sala di rianimazione e racconta in tv alla show-woman argentina Suzana Gimenez: <em>"Ho visto la morte, ho visto El Barba"</em>. Che per lui è Dio. Ha pregato e prega ancora. Come a Villa Fiorito, il suo barrio povero, quinto di 8 figli, una baracca di legno, tetto di lamiera bucata. Figlio di Diego, emigrato da Equina, 600 kmn a nord, dove ogni giorno con una chiatta portava un gregge a pascolare da una riva all’altra del Paranà. Nasce alle 7,05 di una domenica, il suo giorno, culla numero 10 come la sua maglia, primo maschio nato quella notte dopo nove bambine.
Crollare e rialzarsi. I biografi dicono che quel carattere possono averlo solo i "ragazzi del potrero". Spianata di acqua fango che il sole asciuga, e diventa durissima, sulle rive del Rachuelo, il fiume di 65 km più inquinato del continente. I ragazzi del potrero giocano lì. E non si arrendono mai. Neanche dopo un arresto lampo. Quando Diego misura il suo orgoglio con lo sguardo severo di un giudice donna. È nel film "La mano de Dios"di Marco Risi. "Io ho dato felicità a tanti uomini". Ed Hernan Barnasconi, ancora più ruvida lo provoca: "Lei ha dato tanta felicità, ma doveva tenerne un po’ per sé". Ma sono passati solo 50 anni, calma, Diego tempo ne ha. Lo aiutano due frasi. Una è sua. "Yo fue siempre ganador". Io ho sempre vinto. E l’altra era una curva di via Orazio, scritta con vernice spray. La leggeva ogni mattina quando tornava a casa. "Diego il sole tramonta ogni giorno". E lui rivedeva un’altra alba.
<strong>Antonio Corbo</strong> <em>(dal Venerdì di Repubblica)</em>

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