Il golfista Scheffler e quelli per cui vincere non è affatto l’unica cosa che conta (Nyt)

«Non voglio che il golf influenzi la mia vita familiare o il rapporto con mia moglie o mio figlio». La lista di campioni che sul più bello si chiedono "che senso ha?" è lunghissima. «Dopo, spesso, c'è solo il vuoto»

Scheffler

US golfer Scottie Scheffler and his son Bennett play with the Claret Jug on the 18th green after Scheffler wins the 153rd Open Championship at Royal Portrush golf club in Northern Ireland on July 20, 2025. Scottie Scheffler romped to a magnificent four-shot victory to seal his first British Open title at Royal Portrush on Sunday, notching his fourth major success. The world number one eased to a three-under par final round of 68, finishing on 17-under for the tournament after shooting in the 60s on all four days. (Photo by HENRY NICHOLLS / AFP) / RESTRICTED TO EDITORIAL USE

Il golfista Scheffler e quelli per cui vincere non è affatto l’unica cosa che conta (Nyt)

Com’era la vecchia storia del “vincere è l’unica cosa che conta”? Chiedetelo a chi per mestiere non fa altro che vincere. Molti vi racconteranno una storia parecchio diversa. Il New York Times lo chiama “The Scheffler paradox”, il paradosso di Scheffer, ovvero l’americano numero uno al mondo del golf che alla vigilia dell’Open Championship irlandese a inizio mese ha dichiarato ai media di tutto il mondo che a volte si chiede quale sia il senso di tutto questo: “Se il mio golf iniziasse a influenzare la mia vita familiare o il rapporto con mia moglie o mio figlio, sarebbe l’ultimo giorno in cui gioco qui per vivere. Arrivi al numero uno al mondo e… che senso ha? Perché voglio così tanto vincere questo torneo? Avere successo non è ciò che soddisfa i desideri più profondi del mio cuore”.

Uno schema mentale – quello di Scheffler – che contraddire gran parte di ciò che si scrive e si dice degli sportivi d’élite, che “lo vogliono” più dei loro avversari. Che sono egoisti. Che non staccano mai. Che vincere non è tutto, è l’unica cosa che conta.

Il Nyt ricorda che non è mica il primo. Aaron Rodgers, il quarterback della Nfl che vinse il Super Bowl del 2011 con i Green Bay Packers: “E adesso? Mi chiedevo: ho forse puntato alla cosa sbagliata? Ho passato troppo tempo a pensare a cose che in definitiva non ti danno la vera felicità?'”.

O il pugile britannico Tyson Fury dopo aver battito Wladimir Klitschko, diventando campione del mondo dei pesi massimi nel 2015: “Finalmente arrivato alla fine dell’arcobaleno, la pentola d’oro sembrava mancare… Il mondo racconta del successo come una storia meravigliosa, l’apice della felicità. Ma la mia esperienza è stata che c’era solo un vuoto, e sembrava che tutti cercassero di ottenere qualcosa da me“.

E così Michael Phelps, l’olimpionico più decorato di tutti i tempi con 23 medaglie d’oro: “Ti senti come se fossi sul bordo del precipizio e pensi: ‘Bene… e adesso?’“.

Lo psicologo della prestazione Jamil Qureshi afferma che trovare il punto ideale in cui lo sport praticato da un atleta non lo definisce, ma in cui può anche essere un partner, un genitore, un fratello, un imprenditore o qualcosa di completamente diverso, può portare sia alla felicità che al successo. “La felicità è quando ti perdi in qualcosa che è più grande di te. Ecco perché le persone la cui vocazione si trasforma in una vacanza, che inseguono la propria passione più della pensione, sono quelle che hanno un felice successo”.

Qureshi fa una distinzione tra avere uno scopo e avere un obiettivo. “È per questo che Tiger Woods continua a lavorare. È per questo che Richard Branson continua a lavorare. È per questo che Cristiano Ronaldo continua a lavorare. Perché lo scopo non si raggiunge mai, si realizza quotidianamente“.

Parte del problema, dice Qureshi, è che lo sport viene giudicato in base ai risultati. Questo, aggiunge, è “il motivo per cui le persone provano euforia e felicità quando raggiungono un obiettivo, ma è quasi come se si trattasse di una presa in giro, più che di un traguardo”.

C’è anche una sorta di discrepanza, dice Qureshi, tra il tempo, la dedizione e il sacrificio necessari per raggiungere quel momento di gloria e il fatto che, per sua natura, sia fugace.

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