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Che cosa vuole dire tifare il Napoli

Il Napoli compie novant’anni e Gianni Montieri ricorda che cosa significhi tifare e amare la maglia azzurra.

Che cosa vuole dire tifare il Napoli
Paolone Dal Fiume in Napoli-Catania

Tifare il Napoli vuol dire un sacco di cose e ricordi tanti e misti.

Vuol dire mio nonno che dice (amandolo): “Savoldi nun vale manc’ ‘na lira”. Vuol dire cominciare a giocare con le parole attraverso i nomi di Catellani e Vinazzani. Vuol dire sapere chi siano Claudio Pellegrini e Paolo Dal Fiume. Conoscere Speggiorin. Ricordarsi di quella volta che Castellini andò a sbattere con la testa sul palo dopo una parata. Mattolini. Guidetti. Sapere che numero di scarpe portava Massimo Palanca. Ricordarsi di Celestini che guarda Maradona palleggiare e rimane a bocca aperta. Quegli anni e tutte e le partite, le feste. Ricordarsi di un motorino rubato a qualcuno di noi fuori lo stadio e di qualcuno che ci diede un passaggio. La prima trasferta a San Siro, con mio cugino più grande, di notte in treno seduti per terra e vedere quel gol di Maradona a Zenga. Moreno Ferrario. Il gol di Volpecina alla Juve. Luciano Sola, e ho detto tutto. Un mio amico steso per terra, a Piazza Gramsci a Giugliano, la notte del primo scudetto, che urlava, pazzo di gioia: “Mo’ pozz’ pure murì”. Francesco Romano, il mio uomo che non c’era. Le parate assurde di Garella. Eraldo Pecci, il nome e cognome meno napoletano di sempre, che giocatore. Sapere a memoria Careca e non dimenticare Carannante. Sapere il fallimento. Sapere la sconfitta. Sapere come si sparisce e come si ritorna. Sapere il modo orribile ed efficace di correre di Renica. Sapere Bruscolotti e Ciro Ferrara e quel gol in coppa. Sapere Bagni, De Napoli, Crippa e Fusi. Bruttissimi e straordinari.

Amare ancora molto Bruno Giordano, sognare una carriera migliore per Ciro Muro. Caffarelli, naturalmente. Vuol dire poter dire: Maradona e cosa mia. Vantarsi di averlo visto giocare. E poi Careca, in quanto faceva i cento metri palla al piede? Le voci di Enrico Ameri e Sandro Ciotti, e gli infarti prima di sapere se avevi segnato o subito. Il gol di Francini al Real Madrid. I Cannavaro, tutti e due. Una partita straordinaria contro il Foggia di Zeman ai tempi di Fonseca. Le mille sconfitte assurde. Vuol dire sapere sempre che le partite finiscono, che i centravanti se ne vanno, che le maglie restano. Amare ancora moltissimo il Pampa Sosa e Gianfranco Zola. Vuol dire commuoversi al pensiero di Imbriani, chiuso per sempre nell’attacco di una canzone dei Modena City Ramblers. Montervino e Pià. Quando si giocava con il Lanciano. Tutto questo aver tifato. Essere cresciuti, aver avuto paura di vincere, paura di perdere.

C’eravamo con Maradona e c’eravamo quando non eravamo più. Perché tifare per una squadra e amare il calcio sono cose senza ragione, senza spiegazione e a noi ci va bene così. Lavezzi che non ho mai amato troppo, ma sono fatti miei. Mi piaceva Bogliacino. Vuol dire aver sentito non so quante volte mio zio dire: “Chist’ ann’ vincimme”. E poi non vincevamo e poi abbiamo vinto. Troppo poco. Il Napoli di Maradona come gli Smiths, è durato troppo poco. La rinascita, quel campionato di B. Reja, tanto amato. Ma anche Ottavio Bianchi, che non è vero che non rideva, rideva a modo suo. Giampiero Galeazzi. L’ancora inspiegabile (insieme a molti altri) Dalla Bona. Sì, Mazzarri che diventava tutto rosso. Cavani, meraviglioso e implacabile. E poi Benitez, che hombre strepitoso. Il suo Napoli, quanti gol abbiamo fatto? E quante cazzate, quante partite buttate. Quanto divertimento, però. Gli spagnoli. Callejon, dopo Maradona e Careca, quello che amo di più. Il mio amico Calle. Tutti i cross sbagliati da Maggio. Tutte le partite non giocate da Zuniga. Michu. Chi? Appunto. Sempre si tifa, mai si dimentica. Higuain, vuoi o non vuoi, finita da poco o non finita, nei ricordi sta pure lui, e sono belli e poi sono dolorosi. Tifiamo anche per questo. Insigne, classe pura, che talento. Sarri, più di tutti il mio mister. Il Napoli che ha giocato meglio è il suo. Tutte le partite guardate e non guardate. Tutti gli articoli che ormai sono tanti (e senza Britos, Inler e Behrami niente sarebbe stato uguale) i racconti e tutto quanto. Novant’anni sono pochi o sono molti, gli ultimi dieci sono quelli del capitano, di cui amo ormai pure quell’assurda acconciatura.

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