Quando sale la tensione, c’è chi si sente a proprio agio (come se tornasse nel liquido amniotico) e chi impallidisce. Anche se è un giocatore bravissimo nel suo ruolo

Non è colpa di Jorginho. E non è il caso di crocifiggerlo. Nel rapporto dare avere di questa Nazionale, la bilancia di Jorginho è nettamente sbilanciata dalla parte del dare. Ironia della sorte, ma nemmeno tanto, la prima da titolare la giocò quando la nave di Ventura era sull’orlo del burrone: al ritorno contro la Svezia. Non è ancora la stessa situazione ma non manca moltissimo.
Nel frattempo sono accadute un po’ di cose. Jorginho ha attraversato una lunga crisi che potremmo definire da Premier ma anche da Sarri. Al Chelsea il suo primo periodo non fu semplice. Né con Sarri né soprattutto con Lampard. Poi, come a volte accade nella vita, la prospettiva cambia improvvisamente. Esonerato Lampard, arriva Tuchel. E in pochi mesi Jorginho non solo ritrova la bacchetta magica, quella da direttore d’orchestra, ma vince uno dietro l’altro la Champions, l’Europeo, la Supercoppa europea.
Fummo proprio noi del Napolista a lanciare la candidatura a Pallone d’oro. Noi che, almeno per quel che riguarda chi scrive, non abbiamo mai considerato Jorginho un fuoriclasse. Ma nemmeno per idea. E consideriamo i 60 milioni della sua cessione un signor affare. Non perché sia scarso ma perché – e ci torneremo – è rappresentante del calcio a una dimensione, del calcio specialistico. Che, vivaddio, può anche non piacere.
Ma Jorginho ha vinto tutto e come tale, visto che si era parlato di Kanté (suo compagno al Chelsea) candidato al Pallone d’oro, allora l’italo-brasiliano ne avrebbe certamente più diritto.
Però su un punto bisogna essere chiari. Jorginho è Jorginho. E lo scriviamo noi che abbiamo ospitato interessanti e approfonditi articoli di chi aveva e ha un parere contrario al nostro. E il limite di Jorginho non è una responsabilità di Jorginho. Il limite di Jorginho spiega la bellezza del calcio. E perché nel calcio la specializzazione, anche ad altissimi livelli, non è tutto. Almeno non ancora. E finché non lo sarà, noi continueremo a guardarlo e ad appassionarci.
Jorginho non può vincere il Pallone d’oro. Perché è un tecnico specializzato. È uno specialista, forse anche il migliore al mondo nel suo ruolo. Non vogliamo addentrarci in questa discussione. Può essere che sia così. Ma Jorginho sa fare quelle cose. Sa eseguire quello spartito. Per essere considerato un grande del calcio, non basta. Un’obiezione potrebbe essere: ma pure Inzaghi era uno specialista. Nemmeno lui ha vinto il Pallone d’oro, innanzitutto, e in secondo luogo la sua specializzazione colpiva di più. E colpiva, non di rado, nei momenti decisivi.
Ed eccoci alla differenza sostanziale tra uno specialista sopraffino e un calciatore che lascia il segno. È la differenza che rende il calcio e lo sport così affascinanti: come ci si comporta quando sale la tensione, quando quel pallone diventa pesante come una pietra, quando le gambe si fanno molli e ti si annebbia la vista. Non è un caso che Jorginho quel rigore lo abbia calciato come Higuain, o come Graziani nella finale Roma-Liverpool. O, aggiungiamo, come Baggio a Usa 94. È un rigore standard. E in questo elenco, Baggio è un’eccezione perché lui – Baresi ci perdoni – era un campione vero.
Ci sono calciatori, e sportivi in generale, che quando sale la tensione, si sentono a loro agio. Tornano nel liquido amniotico. Avvertono quella leggera sensazione di piacevolezza. È come sentirsi nella propria comfort-zone. Mentre altri impallidiscono, loro riacquistano la verticalità. Respirano a pieni polmoni, un po’ come col napalm a prima mattina in Apocalypse now. Ma non possiamo chiedere questo a Jorginho. Non sarebbe corretto. Né a lui né ad altri.