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A Napoli esiste ancora la Santa Trinità di Shankly?

A Napoli esiste ancora la Santa Trinità di Shankly?

Una volta Bill Shankly disse: “In una squadra di calcio c’è una Santa Trinità: i giocatori, il tecnico e i tifosi. I dirigenti non c’entrano. Loro firmano solo gli assegni”. Una di quelle sentenze lapidarie tipiche del suo stile, tanto pragmatico quanto idealista, da infaticabile lavoratore scozzese. Una frase che mi torna alla mente in questi giorni, mentre assistiamo a quello che ha sempre più l’aspetto di un lento ma inesorabile naufragare. 

La stagione della Ssc Napoli è iniziata sotto auspici tanto impegnativi quanto – se vogliamo – velleitari. Non è stato particolarmente astuto da parte del Presidente dichiarare fin dal ritiro obiettivi ambiziosi, con l’unico effetto di accendere da subito l’ambiente con il fuoco di aspettative e pretese. In un raro slancio di ottimismo, non teneva conto della campagna acquisti ancora in corso, che se da una parte non avrebbe portato a un significativo rafforzamento della nostra squadra, non avrebbe nemmeno determinato un indebolimento delle dirette rivali nella corsa per lo scudetto. Da qui prestazioni altalenanti e risultati deludenti si sono trasformati in una croce per le spalle di allenatore e giocatori, a stagione appena cominciata.

Gran parte di quel peso arriva senza dubbio dall’eliminazione ai preliminari di Champions League. Un’eliminazione che ha lasciato ferite non ancora rimarginate, nella città, nella squadra, nei sostenitori. L’unico a non averne fatto un dramma è stato l’unico ad avercela davvero, una Champions League in bella mostra nella sua bacheca (insieme a due Europa League, una Supercoppa UEFA e una Coppa del Mondo per club): la persona che, se avesse voluto applicare la mentalità molto italiana e molto poco sportiva dell’elaborazione drammatica della sconfitta, avrebbe potuto puntare i piedi da subito, rimbalzare le responsabilità sulla dirigenza e lanciare anatemi per i patti traditi (il centro sportivo resta purtroppo un’utopia). Niente di tutto questo. Lo stile dell’uomo sa essere un altro, per fortuna sua e di chi ama il calcio vero, quello giocato e non quello parlato, fatto di parole a vanvera sparate in giro a casaccio attraverso i mulini a vento.

Da una parte la dignità di Benítez, dall’altra una certa intellighenzia ben rappresentata dal Mattino, che oggi scrive in un editoriale senza appello: “Sono stati mortificati quei 2500 tifosi che erano a Berna: alcuni, lividi di rabbia, hanno reagito prendendo a calci il pullman degli azzurri e insultandoli. Serve una scossa forte da parte di chi governa il club ai giocatori e all’allenatore: il Napoli non può perdersi così, inseguendo le utopie di Benitez”. Lascio a chi legge l’onere di decidere quale dei due si avvicini maggiormente alle parole di Shankly.

La filosofia del calcio praticata da Benítez ha polarizzato il dibattito. Da una parte l’allenatore e il suo stile. Dall’altra una stampa conservatrice, tanto a livello locale quanto nazionale, che si mostra sorda alle sirene di un calcio di caratura europea e professa con orgoglio la propria diversità. In nome di chissà quali risultati (o meglio, dei risultati francamente imbarazzanti che tutti conosciamo, ma che in molti ci sforziamo di ignorare). In mezzo, i tifosi. Se i giocatori stanno sicuramente rendendo al di sotto delle loro capacità, è anche vero che di tutto li si può incolpare meno che di scarsa applicazione. Lo testimonia l’infortunio occorso a Walter Gargano in allenamento, ma poi tutto il caso di Gargano – da nome in cima alla lista dei tagli possibili a leader in campo – è emblematico della situazione anomala che sta attraversando la squadra. Una situazione anomala che per me può essere fatta risalire all’incontro di andata dei preliminari di Champions contro l’Athletic Bilbao. Ai fischi che coprirono Lorenzo Insigne all’uscita dal campo, al malcontento rumoroso di una parte del tifo azzurro. Come sarebbe andato l’incontro di ritorno se il Napoli di Benítez avesse potuto esprimersi – pur su un campo difficile come quello basco – con la forza del pieno sostegno dei propri tifosi? Un what if ucronico… E la storia purtroppo non si fa con i se.

I tifosi, non sappiamo se gli stessi o altri e la trappola delle generalizzazioni facili è proprio quella da cui maggiormente dobbiamo guardarci, che ieri hanno preso d’assalto il pullman della squadra all’uscita dello Stade de Suisse. Un risultato deludente sul campo. Ma un risultato che non pregiudica nulla. Per di più maturato su un terreno sintetico ostile, che richiede pratica e dimestichezza per essere dominato. Eppure nessuna attenuante per la squadra è stata riconosciuta dai tifosi che si sono scagliati contro il pullman, ricoprendo di insulti giocatori e allenatore. Rei, a detta di alcuni testimoni, di non aver reso il “dovuto” omaggio ai tifosi in trasferta.

Ma nella distribuzione dei doveri, a quale in particolare va ascritta la furia contestatrice della tifoseria? Nella Santa Trinità di Shankly, siamo tutti sicuri che proprio i tifosi siano quelli che stanno interpretando meglio il ruolo che gli compete? Per carità, il Napoli che abbiamo visto giocare in questo scorcio di inizio stagione non è il Napoli che avremmo voluto vedere. È un’ombra pallida e sfumata del calcio frizzante, volitivo e idealista espresso da Benítez all’inizio e in chiusura della scorsa stagione. Ma se è indubbio che ci siano delle difficoltà, sicuramente legate anche – come insegna la storia – al carico extra di fatica psicofisica richiesto dal Mondiale brasiliano ai molti nazionali in rosa, è altrettanto vero che in una visione se non illuminata almeno positivista del calcio la cura la possa e debba prescrivere solo il medico: qualsiasi soluzione alternativa vagheggiata da non addetti ai lavori ha lo stesso valore scientifico del rimedio della nonna.

Il nemico principale del calcio moderno è lo stesso della società in cui viviamo. Una società in cambiamento, fortemente tecnologizzata e arricchita dalle illimitate possibilità di accesso all’informazione e alla conoscenza concesse dal progresso. Ma una ricchezza potenziale, perché per quanto progredita la nostra società resta profondamente contraddittoria, continuamente minacciata dalle insidie dell’ignoranza. L’ignoranza è il vero nemico. L’ignoranza che scaglia fischi contro le note e le parole di You’ll never walk alone nel tempio di Anfield Road. L’ignoranza che fa contare titoli extra nel palmarès di club sanzionati dalla giustizia sportiva. L’ignoranza che tollera nel nome di una concezione al ribasso della cultura sportiva cori discriminatori e tribunali del popolo ai piedi delle curve. L’ignoranza che giustifica contestazioni incivili laddove basterebbe guardare appena al di là del cortile di casa nostra per confrontarci con tifoserie che incitano la propria squadra anche oltre il fischio finale. Perché una partita può anche terminare con una sconfitta, ed è proprio questo che determina il valore dello sport come palestra di vita. Non la vittoria. Si è all’altezza del successo solo se si riesce a essere all’altezza nella sconfitta.

La Santa Trinità di Shankly esiste ancora a Napoli? Me lo chiedo. Quello di cui sono sicuro è che giocatori come i nostri non avrebbero fatica a trovare altre piazze per essere valorizzati al meglio delle loro possibilità. Come sono certo che Benítez potrebbe tornare a giocarsi una finale di Champions League con ciascuna delle squadre che allenerà dopo la sua parentesi napoletana. Non sono sicuro, invece, che professionisti alla loro altezza si sentano altrettanto motivati a venire a Napoli a prendere il loro posto, soprattutto se continuiamo a offrire spettacoli come questi di cui ci stiamo rendendo protagonisti fin dalla scorsa estate.
Giovanni De Matteo scrittore 

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