La solitudine del portiere (non gettiamo la croce addosso a De Sanctis)

Lo sappiamo, il ruolo del portiere è quello più delicato. Da sempre. Lo è fin da quando, da piccoli, si viene messi in porta anche solo perché un po’ sovrappeso, perché troppo smilzi, perché coi piedi non è che ci sai fare, perché quando si è piccoli è Messi il proprio mito (anche se i […]

Lo sappiamo, il ruolo del portiere è quello più delicato. Da sempre. Lo è fin da quando, da piccoli, si viene messi in porta anche solo perché un po’ sovrappeso, perché troppo smilzi, perché coi piedi non è che ci sai fare, perché quando si è piccoli è Messi il proprio mito (anche se i tempi stanno cambiando). Ma è col passare del tempo che quello che era visto come uno sfigato comincia a prendersi le proprie soddisfazioni. Quando ci si rende conto che il mondo se ne cade di Messi e Ronaldo e scarseggia di Jašin e Preud’homme, che quello scarso serbatoio di portieri disponibili su piazza si riduce sempre più e quel ruolo comincia a diventare sempre più ricercato. Insomma il portiere è quel ruolo in cui si comincia come scartina e che man mano che cresci diventa come acqua nel deserto.

Ma chi ha vissuto la propria vita calcistica in porta (come il sottoscritto) – non importa se con molto o scarso successo – sa perfettamente qual è l’importanza del proprio ruolo e lo sa da sempre. Ne ha una percezione precisa fin dal primo momento che si ritrova con alle proprie spalle solo una rete, un muro o un nulla delimitato da due oggetti qualunque a fare da pali. Perché la solitudine del portiere è un romanzo enorme ancora non terminato. Una solitudine fatta per chi ha nervi d’acciaio, riflessi pronti e un’attenzione al di sopra della norma. Perché basta una distrazione, una sola, in una partita, e a volte in un campionato, per giocarsi una reputazione. Per passare dall’essere il salvatore della patria a diventare il brocco da mettere alla berlina. Per buttare al vento ore e ore di allenamento, di risate con i compagni e di strizzate d’occhio coi propri tifosi.

Il calcio è cinico e il ruolo del portiere ne è la dimostrazione materiale.

Lo sa bene Morgan De Sanctis che oggi ha pagato quella distrazione. Nella grande ruota della sfortuna oggi è toccato a lui. Una distrazione fatale, un calcolo sbagliato di uno dei pilastri di questo Napoli di questi ultimi anni, per fargli cadere addosso maledizioni, scherno e “bestemmie”. Per imputargli la perdita di quei due punti appena riconsegnati dalla giustizia sportiva.

Un errore solo (un altro lo ha recuperato al meglio) e due punti sono sfumati. Inutile spiegare che probabilmente la partita sarebbe finita comunque in pareggio, che se avesse parato quell’innocuo cross la strada del match avrebbe potuto non essere molto diversa. Inutile.

Perché la storia è sempre la stessa e chi ha vissuto tra tre pali la conosce a memoria. La storia dice che se sei un qualsiasi altro giocatore non puoi far nulla (tranne forse un retropassaggio à la Aronica, vero) per essere messo alla berlina come nel caso di una papera del portiere. Ma quella papera ci costa dei punti, si obietta. Vero. Ma anche un gol mancato ce ne costa. Inutile far notare che se solo Pandev avesse, chessò, schiacciato di testa in maniera decente quel pallone crossato da Britos (no, vi prego, non parlatemi di “miracolo” di Neto) ora staremo parlando d’altro. Staremo qui a crogiolarci del passo falso della Lazio, fregandocene del poker juventino all’Udinese e del risultato del posticipo. E invece la mia bacheca fb (sì, mia cartina di tornasole degli umori dei tifosi napoletani) è pronta a sacrificare uno dei giocatori più costanti e importanti che abbiamo al pubblico ludibrio. No, non bisogna spostare la croce addosso a Pandev, bisognerebbe solo sgravarla dalle spalle del Pirata e ogni tanto rilassarci e pensare che una cosa del genere può succedere. Che nella vita ci si distrae o semplicemente si sbaglia un calcolo. E, credetemi, la cosa più importante è sentire che la squadra e i tifosi hanno capito che quello è stato solo un passaggio a vuoto. Quello e nient’altro. Ma molti tra i miei amici, tifosi, non l’hanno capito. E non lo capiranno.

Ma non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. E Morgan lo sa. Cerchiamo di ricordarcelo anche noi.
Francesco Raiola

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