C’era una sola squadra che aveva fame, ed era il Napoli del fuoriclasse Conte

David Neres, numero sette, entra nella genealogia sentimentale del Napoli. Quella dei giocatori che non si limitano a segnare ma lasciano impronte.

Napoli Conte

Db Riyadh 22/12/2025 - finale Supercoppa Italiana / Napoli-Bologna / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Torbjorn Heggem-Amir Rrahmani

C’era una sola squadra che aveva fame, ed era il Napoli del fuoriclasse Conte

Il Napoli vince anche la Supercoppa e lo fa come vincono le squadre che non chiedono il permesso alla storia: entrano, si siedono, e cambiano l’ordine dei discorsi. Un double magnifico, sì, ma soprattutto necessario, perché certifica che non si è trattato di un lampo né di una nostalgia. Questo Napoli non è ingiocabile, parola pigra e abusata: è giocabile, eccome, ma solo da chi riesce a pensare alla stessa velocità con cui corre il pallone. E in Italia, oggi, non sono molti.

Il risultato dice due a zero, ma mente con educazione. Potevano essere quattro, cinque, forse di più. Ma il Napoli non ha infierito, come fanno i toreri stanchi della corrida. Ha controllato, ha scelto, ha chiuso il conto quando bastava. Perché il calcio non è accumulo, è precisione. E il trofeo pesa uguale, che tu abbia vinto largo o stretto.

Il migliore dei rossoblù è stato il portiere Ravaglia, ultimo resistente in una notte che chiedeva al Bologna di essere più grande di sé stesso. Ha parato l’imparabile, ha rimandato l’inevitabile, ha dato dignità al punteggio. Senza di lui, il tabellino avrebbe raccontato una storia meno gentile.

David Neres, numero sette, entra nella genealogia sentimentale del Napoli. Quella dei giocatori che non si limitano a segnare ma lasciano impronte. In questo tempo suo, il Diavolo di Mergellina si è addolcito: è diventato uno struffolo che cola miele, scivola tra le maglie avversarie e le incolla alle proprie esitazioni. Ogni tocco è una promessa mantenuta, ogni accelerazione una bugia raccontata alla difesa. Non corre per fuggire, corre per attirare, come fanno i grandi seduttori.

Ma il vero fuoriclasse non suda. Antonio Conte sembrava altrove, come certi amori dati per finiti che invece maturano in silenzio. E proprio nell’altrove ha ritrovato se stesso. Ha preso il Napoli e lo ha ridisegnato con la matita dura degli allenatori che conoscono la paura e non la temono.

Ha tolto il superfluo, ha dato ordine al talento, ha insegnato alla squadra l’arte difficile della pazienza. Conte non urla idee: le costruisce. E quando funzionano, sembrano inevitabili.

Il simpatico Bologna ha retto finché ha potuto. È andato a tutto campo a caccia dei cervelli azzurri, con quella presunzione gentile di chi pensa che l’intensità possa sostituire la differenza. Ha corso molto, ha pensato meno. E contro questo Napoli non basta correre: bisogna sapere dove andare prima ancora di partire.

In difesa, Juan Jesus racconta una storia che il calcio spesso dimentica. Alla saggia età in cui non si promette più nulla ma si mantiene tutto, è diventato un difensore di livello alto. Non fa rumore, non fa scena. Toglie spazio, tempo e illusioni. È il mestiere che diventa arte minore, quella che non finisce nei titoli ma vince le partite.

E il migliore del Napoli, più di ogni nome scritto sulla maglia, è stata la fame. Quella che sembrava sazia e invece è tornata a mordere. Quando torna la fame, la strada più in salita diventa discesa, e le gambe non chiedono permesso al fiato. È una squadra che gioca come se dovesse ancora dimostrare qualcosa, ed è lì che nasce il pericolo vero per gli altri.

Il tutto, senza due assenze che altrove sarebbero alibi e qui diventano promemoria: mancano Lukaku e De Bruyne. Mancano, ma non pesano ancora. Perché questo Napoli, oggi, non vive di attese ma di presente.

Riad, le luci, le camere volanti, i droni che sorvolano il campo come gabbiani tecnologici. Una regia che guarda tutto tranne ciò che conta davvero. Il calcio lì dentro c’entra come il parmigiano sulle vongole. Eppure, anche in mezzo a questo scenario artificiale e distante, il pallone ha trovato la sua verità.

Mentre altrove restano i racconti, le nostalgie, le spiegazioni ben scritte per giustificare perché non è successo, Napoli alza coppe. Cambiano i tempi, cambiano i luoghi, cambiano perfino le telecamere. Ma il gioco no. E continua a parlare a chi ha ancora fame di ascoltarlo.

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