Edwards 30 anni fa saltò 18,29 metri, e nessuno l’ha più battuto: «Volai grazie a Dio e poi ho smesso di credere»
Al Telegraph: "Quel salto mi definisce davvero, più dell'oro olimpico. Portavo Dio in gara, l'atletica era l'espressione della mia fede. Quando ho smesso, mi sono liberato"

British Olympic triple jump gold medalist Jonathan Edwards carries the Union Jack over his head after winning the competition in Sydney 25 September 2000 with a 17.71m jump, ahead of Cuban Yoel Garcia and Russia's Denis Kapustin. AFP PHOTO/Gabriel BOUYS (Photo by Gabriel BOUYS / AFP)
Sono passati 30 anni esatti da quando Jonathan Edwards volò per 18,29 metri nel salto triplo ai Campionati mondiali di atletica di Göteborg: era il 7 agosto 1995. Nessuno ha più battuto quel record mondiale. Oggi lo celebrano tutti i giornali sportivi del pianeta. Il Telegraph però s’è fatto raccontare metro dopo metro quel salto direttamente da lui. Ed è andato oltre. Era un atleta di Dio. Ora non ci crede più, dice.
“Cresci vedendo eroi e ti senti molto normale. Quindi, quando fai qualcosa di straordinario, è difficile mettere in relazione le due cose. Scegliere qualcosa da fare nella vita e averla fatta meglio di chiunque altro è un po’ strabiliante. Trent’anni sono una follia. Mi sentivo come se stessi volando, è una cosa ritmica, quasi come se fossi qualcun altro rispetto al vecchio uomo rigido e dolorante che sono ora”.
A quel record arrivò tardissimo. Aveva 29 anni e “un neonato che non dormiva… mi chiedevo davvero se la mia carriera fosse finita”. Invece l’11 giugno Edwards stabilì un record britannico di 17,58 metri, prima di una straordinaria sequenza nelle sei settimane successive in cui saltò 17,72 m, 17,74 m, un record mondiale di 17,98 m e, cosa più sbalorditiva di tutte, un 18,43 m ventoso. “Ero terrorizzato: sentivo che la mia stagione sarebbe stata un fallimento se non avessi vinto il Campionato del Mondo”,
Dopo il salto per cui sarà ricordato per sempre, era scomparsa ogni ansia, tutto lo stress. Era calmo: “È stato incredibilmente speciale, una sensazione che non ho mai più provato. La mentalità era: vai e basta. La mia velocità massima era la stessa di Donovan Bailey (campione mondiale dei 100 metri nel 1995 e campione olimpico del 1996, ndr) e gran parte dell’allenamento si basava sui blocchi”.
“Non ero così bravo nei salti esplosivi singoli – non sapevo schiacciare a canestro – ma mantenevo la velocità meglio di chiunque altro. C’è un insolito insieme di caratteristiche fisiche che mi ha reso un ottimo triplista. Non si tratta solo di una di quelle parti interconnesse, ma della coordinazione di tutte. Lo paragono allo swing del golf: all’improvviso tutto funziona, è meravigliosamente facile e la palla vola in un modo in cui normalmente non la colpisci”.
“Ho capito subito che era un salto da record. C’era una serenità… una calma. Sapevo che era un record mondiale: ecco perché ho alzato le spalle”.
Scrive il Telegraph: “Tornato a casa, in Gran Bretagna, questo padre timorato di Dio – descritto in un articolo di cinque pagine su Sports Illustrated come più simile a un insegnante di scuola secondaria che a una star mondiale dello sport – aveva trasceso l’atletica. Edwards aveva improvvisamente bisogno di una segretaria e di un agente”.
“Essere famosi ha i suoi lati positivi. Ma credo che, nel complesso, abbia avuto un impatto su di me e sulla mia famiglia molto più di quanto pensassi all’epoca. La gente mi chiedeva di fare di più e io conducevo eventi. Era bello, ma anche un po’ strano. Non è una vita che avrei mai pensato di avere”
“Ho semplicemente smesso di credere in Dio. Sono cresciuto in una famiglia cristiana molto fervente. Questa era la verità, e l’ho seguita. E poi ho fatto atletica come espressione della mia fede. Erano collegate. Ho portato Dio in ogni competizione. Avevo la convinzione che lo facessi non per la mia glorificazione personale, ma per uno scopo più grande. Mi ha dato un contesto e una cornice per affrontare la pressione. Mettere in discussione la mia fede avrebbe quasi messo in discussione la mia intera esistenza con lo sport. Quindi penso che quando ho smesso di fare atletica, ho avuto quasi la libertà di mettere tutto in discussione”.
“Penso che i miei orizzonti si siano ampliati perché sono venuto a Londra per fare cose diverse, lavorando con persone con credenze diverse. Non è che fossi deluso dalla Chiesa o che fosse successo qualcosa di molto traumatico. Alison è stata fantastica. Ha una fede molto forte e continua ad averla. Penso che ce l’abbiamo fatta molto, molto bene. Per i ragazzi hanno due figli adulti non è stato un problema. Credo che i miei genitori l’abbiano trovato più difficile. Anche alcuni dei nostri amici l’hanno trovato più difficile. È stato un grande cambiamento”.
“Quel salto mi definisce senza ombra di dubbio come atleta, non l’oro olimpico per quanto meraviglioso sia stato. Non c’è paragone, nella mia mente, tra l’emozione di quel momento e quella di quando finalmente ho vinto le Olimpiadi. È questo che mi strappa un sorriso. Penso che l’atletica, nella sua essenza, sia una dimostrazione del potenziale umano. Quanto lontano puoi spingerti? Quanto velocemente puoi correre? Quanto lontano puoi saltare? Quanto lontano puoi lanciare? E, per me, l’emozione era sempre prendere il metro a scuola e vedere se ottenevo il mio record personale. Anche quella era la magia di quel momento: c’era una semplicità e un’innocenza in tutto questo”.