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Nibali: «Ero un ragazzino di strada, il ciclismo mi ha salvato. Ho perso tanto perché gli altri erano dopati»

Al CorSera: «Ai miei genitori chiedevano il pizzo per la cartoleria. Vincere il Tour de France si è trasformato in un incubo: assalivano me e mia moglie, ero travolto dalla popolarità».

Nibali: «Ero un ragazzino di strada, il ciclismo mi ha salvato. Ho perso tanto perché gli altri erano dopati»
Val Thorens (Francia) 27/07/2019 - Tour de France / foto Panoramic/Insidefoto/Image Sport nella foto: Vincenzo Nibali ONLY ITALY

Il ciclista italiano più vincente della storia, Vincenzo Nibali, racconta in un’intervista al Corriere della Sera di come lo sport l’abbia salvato da una vita difficile in Sicilia.

Nibali: «Ero un ragazzino di strada, ho perso tanto a causa del doping»

«Ero un carusu dannificu, un bambino che combinava danni e attirava guai come un parafulmine. Una vetrata pericolante? La tiravo giù a sassate. Ho fatto esplodere con i petardi metà delle cassette delle lettere del quartiere Boccetta, il mio, ho rischiato di schiantarmi in discesa con la macchina a pedali, ho lanciato un motorino contro il muro mancando di poco una passante. Un ragazzino di strada che poteva anche prenderne una brutta, di strada. Ma grazie a mio padre e alla bicicletta ne ho imboccate altre, tutte in salita: il santuario di Dinnammare a picco sullo Stretto, Novara di Sicilia, l’etna che mi ha fatto capire che nella vita sarei stato ciclista».

Un’esperienza diretta?

«La cartoleria dei miei genitori. I pizzini che ti invitavano a pagare, la bottiglia di benzina fatta brillare dietro la serranda, la casa messa a soqquadro come avvertimento».

Quando arriva la bici nella sua vita?

«A dodici anni, con mio padre e i suoi amici cicloturisti. Sempre in salita, che da Messina si esce solo scalando».

Le piaceva?

«Mi piaceva la bici come oggetto, mi piaceva viaggiare, mi piaceva vincere. Divoravo Il Mondo del Ciclismo, il settimanale con i risultati delle gare nazionali e vedevo tanti siciliani in Toscana. Volevo essere come loro. A quindici anni vinsi una corsa a Siena e decisi di non tornare più a casa».

Cosa le hanno detto i suoi quand’è partito?

«Se ti impongono scelte sbagliate torna e troverai sempre noi e un lavoro. Una frase decisiva».

A che scelte si riferivano?

«Al doping, se ne parlava tanto in quegli anni. Quella frase mi ha aiutato a capire il percorso giusto: in quel momento il ragazzino dannificu è svanito».

Primo anno da professionista, la spediscono alla terribile Liegi-bastogne-liegi.

«Metà dei partenti si ritirò, io arrivai ultimo e staccato. Una grande lezione».

Al Giro d’Italia lei fu terzo nel 2010, secondo l’anno dopo, primo nel 2013:

«Consideravo vincere una cosa normale, non riuscivo mai a lasciarmi andare. Inconsciamente credo che il passaggio da ragazzino discolo a uomo maturo mi abbia cambiato dentro: sempre con il freno a mano tirato tranne che in bici».

Dal 1965 a oggi solo Gimondi, Pantani e Nibali hanno vinto il Tour de France:

«La più grande gioia della carriera che per un anno si è trasformata in un incubo. Ero travolto, schiacciato da popolarità, richieste, tifosi e giornalisti. Quando passeggiavamo con la bambina in carrozzina ci assalivano. Con mia moglie Rachele volevamo solo scappare da tutto e tutti. Poi ci siamo abituati ma è solo quando ho smesso di correre che ho cominciato davvero a vivere».

Nel 2012 lei arriva secondo alla Liegi, battuto da un carneade kazako (Maksim Iglinskij) che poco dopo venne trovato dopato…

«Non mi sono mai posto la domanda di quanto ho perso per colpa del doping, probabilmente tanto. Alla Vuelta me la giocai con tale spagnolo Mosquera, poi radiato. E se avesse vinto lui e non l’avessero scoperto?».

Lei ha avuto capitani, gregari, compagni che si sono dopati:

«Andavano alle corse come si andava in guerra, era un fatto culturale per quella generazione. Detto questo, se non volevi non ti dopavi: la generazione successiva ha cambiato il modo di pensare e se adesso c’è un ciclismo pulito credo sia anche merito nostro».

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