“Che speranza può avere lo sport di fare la differenza? E’ solo un mezzo per sfuggire al mondo reale anziché cambiarlo. Cosa ci facciamo tutti qui?”

Nel frattempo, mentre noi parliamo e prendiamo posizioni per lo più disinformate, “quasi due milioni di persone a Gaza rischiano di morire di fame”. “Nel frattempo – scrive il Guardian – il ministero della salute di Gaza ha riferito che 76 palestinesi sono stati uccisi in 24 ore lunedì, ma nessuno sembra sapere chi l’ha fatto, o di chi è stata la colpa, o se questo sia uno sviluppo gradito o sgradito. Nel frattempo, il ministro della sicurezza nazionale di Israele promette il trasferimento volontario di tutti i cittadini di Gaza”.
“Niente ha più davvero alcun significato. Le parole possono indicare qualsiasi cosa tu voglia. Le azioni non hanno conseguenze. Le Nazioni Unite sono cattive, in realtà, e i bombardamenti sono una forma di difesa, e i neonati possono essere danni collaterali, e i morti non sono morti, perché non puoi essere umano se non sei mai esistito in primo luogo. A quel punto, un po’ goffamente e con profonda riluttanza: entra in gioco lo sport”.
Eccoci al punto dell’editoriale di Jonathan Liew. “Negli ultimi 13 mesi, dopo l’agghiacciante attacco a Israele da parte di Hamas nell’ottobre dell’anno scorso, lo sport ha cercato di presentare il bersaglio più piccolo possibile in mezzo alla carneficina che ne è seguita. La linea è: non c’è linea. Occasionalmente veniva inflitta una punizione a un atleta che non riusciva a mantenere questa linea senza linea”.
“Ma gli eventi recenti hanno minacciato questa fragile omertà, un’oscurità in agguato appena oltre le finestre che non può più essere ignorata o tenuta a bada”. I fatti di Amsterdam e la rissa nel triste stadio di Parigi vuoto per Francia-Israele.
“A nessuno importa un cazzo di nessuno dei 344 calciatori palestinesi uccisi da Israele dall’ottobre scorso, o del fatto che le squadre degli insediamenti israeliani in Cisgiordania giochino nel loro campionato nazionale in violazione delle regole della Fifa , o che il campionato palestinese in Cisgiordania sia stato sospeso a tempo indeterminato. Di fronte a tutto questo, l’inazione comincia a sembrare una scelta consapevole. Sono passati sei mesi da quando la Fifa ha promesso una rapida sentenza sull’imposizione o meno di sanzioni alla nazionale israeliana per le azioni del suo governo, e stiamo ancora aspettando. Sono passati quattro mesi da quando gli atleti israeliani hanno gareggiato ai Giochi olimpici dopo che il presidente del Comitato olimpico internazionale , Thomas Bach, ha dichiarato: “Non siamo nel mondo della politica”. Sono passati due mesi da quando un importante assalto israeliano a Jenin, nella Cisgiordania occupata, ha distrutto lo stadio di calcio principale della città”.
“Che speranza può avere lo sport di fare la differenza? Può mai essere più di un bozzolo, un mezzo per sfuggire al mondo reale anziché cambiarlo? In altre parole: cosa ci facciamo tutti qui?”, si chiede Liew.
“Nessuno lo sa. Ma noi sappiamo, o dovremmo sapere, distinguere il bene dal male. Uccidere i bambini è sbagliato. Un governo che dichiara che alcuni esseri umani sono più inutili di altri è sbagliato. Provocare una carestia è sbagliato. Quanto è complicato? In che modo questo è l’inizio di un dibattito, piuttosto che la fine? Com’è remotamente possibile inquadrare questa orribile stravaganza di violenza come l’opzione benigna, e la resistenza ad essa, anche quando proviene dagli stessi ebrei, come una sorta di odio sublimato, piuttosto che il più semplice atto di coscienza che ci sia?”
“Resistere a questo regime israeliano non è incompatibile con resistere a una Coppa del Mondo saudita o a una squadra olimpica russa o a un divieto talebano sullo sport femminile. In effetti è la stessa resistenza: una resistenza alla dottrina del potere intoccabile, una resistenza alla violenza e all’alterità come soluzione ai nostri problemi comuni. E anche se lo sport è uno strumento ottuso e inutile di cambiamento sociale, deve comunque essere impiegato”.