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Brehme sentiva la libertà nel pallone, fu lui ad abbattere definitivamente il Muro

Un leader dal talento sottostimato, personaggio da Wenders. Con il rigore all’Argentina unificò sul campo le due Germanie

Brehme sentiva la libertà nel pallone, fu lui ad abbattere definitivamente il Muro
Bildnummer: 00281477 Datum: 08.07.1990 Copyright: imago/Norbert Schmidt Torsch¸tze Andreas Brehme (Deutschland) schreit nach dem 1:0 seine Freude heraus; Argentinien - Deutschland 0:1, Vdia, quer, close, Jubel, jubeln, Torjubel, Freudenschrei, Schrei, schreien, br¸llen, Emotionen Weltmeisterschaft 1990, Finale, L‰nderspiel, Nationalmannschaft, Nationalteam, Nationaltrikot Rom Stadio Olimpico, Olympiastadion Freude, Begeisterung, Fuflball WM Herren Mannschaft Italien Einzelbild optimistisch Aktion Personen

Quel rigore gliel’hanno fatto tirare centinaia di volte. Andy, raccontaci ancora di quella volta che hai vinto un Mondiale tirando col piede destro, tu che tiravi tutto, cross, punizioni, col sinistro. Anzi, a Brehme per trent’anni hanno chiesto conto anche del fallo di Roberto Sensini su Rudi Voller. Come se il suo unico ruolo, quella sera d’un luglio romano appiccicoso d’umidità, non fosse stato solo quello dell’esecutore materiale.

Mancavano 5 minuti al novantesimo della finale di Italia 90. Quattro anni prima aveva tirato un altro rigore, quarti del Mondiale 1986, contro il Messico. L’aveva tirato di sinistro. Destro o sinistro, a Brehme non fregava nulla. “Non pensavo a niente”, avrebbe raccontato poi. Fai. Fai e basta. Lui così faceva. Faceva e basta. Non pensava.

Quella sera non pensa che sette mesi prima era caduto il Muro di Berlino, e la Germania è una sola, in campo per la prima volta davvero. Il peso della storia gli gravita attorno. Tre giocatori tedeschi avrebbero potuto prendersi quell’impegno. Ma Voller era la vittima del fallo, e all’epoca non si andava sul dischetto da zoppi, è l’etichetta. E il capitano Matthaus è rannicchiato da qualche parte intorno al centrocampo. Insomma tocca a lui, a Andy.  Lui resta impalato in attesa che gli diano l’ok. Dai, tira. E lui tira. Goycochea aveva parato i due rigori italiani di Donadoni e Serena in semifinale. Nemmeno a quello pensa. Piatto destro aperto, angolo sinistro. Leggenda.

Tutto ciò che di spettacolare ricordiamo di quegli eventi – complice la nostalgia, la memoria selettiva, i ricordi patinati dal tempo – non lo riguardano. Lui è una quinta, uno sfondo. Segna, poi scappa via con i pugni stretti mentre i compagni lo atterrano, e questo è tutto. Era considerato il miglior terzino sinistro del pianeta, ma ciò che gli serviva per essere felice ce l’aveva tra i piedi. Il trionfalismo, il contesto, la retorica, gli sarebbero state sconosciute per la vita.

Come ricorda la Faz Brehme veniva da una famiglia in cui il calcio era uno sport operaio. Un lavoro. Roba per gente affidabile. Lui aveva i piedi sensibili e un’impeccabile comprensione tattica del gioco, dettata da un istinto naturale. Fai, non pensare: lui non ne aveva bisogno. Era fisiologicamente fatto per giocare a pallone. Tanto che avrebbe circoscritto tutto il suo splendore agli anni del gioco. Era il suo territorio. Scrive ancora la Faz: “Tecnicamente fortissimo, ma senza mai mettere in mostra le sue doti, Brehme sapeva sempre cosa fare e cosa non fare. Era quasi sempre di buon umore, si assumeva la responsabilità delle sue squadre con la massima disinvoltura, anche nelle situazioni difficili“. Era un leader, ma nessuno ne parlava. Era un argomento implicito.

Il rigore all’Argentina è western puro. Come tutti i rigori, un po’. Ma quando Brehme si installa in attesa che gli argentini la smettano di bestemmiare in faccia all’arbitro l’ingiustizia appena subita, quello è Clint Eastwood che sta per sparare. Trabocchetti dell’epica a posteriori. In realtà sarebbe stato un bel personaggio di Wenders. Sentiva la libertà dentro le cose. La potenza assoluta del mestiere senza fronzoli. Essere, fare. Apparire di sponda, nell’impossibilità di sottrarsi. Nell’Inter dei record di Trapattoni c’erano Lothar Matthäus e Jürgen Klinsmann. Nell’89 fu Brehme ad essere nominato Calciatore dell’anno. E quella Serie A era il miglior campionato del mondo. Smise di giocare e non lasciò più il segno. Non da allenatore, né da imprenditore. Brehme aveva già fatto tutto, e bastava così.

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