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Questo Napoli è la negazione di tutti i luoghi comuni su Napoli

Tratto dal Corrmezz. Niente genio e sregolatezza. Equilibrata, per nulla in simbiosi con la città. Club estraneo al contesto. È uno scudetto che sarebbe piaciuto a La Capria

Questo Napoli è la negazione di tutti i luoghi comuni su Napoli
Db Torino 23/04/2023 - campionato di calcio serie A / Juventus-Napoli / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Giovanni Di Lorenzo

Riportiamo l’articolo di Massimiliano Gallo per il Corriere del Mezzogiorno di oggi 25 aprile 2023.

Si fa presto a dire Napoli. L’immagine dei motorini che – rigorosamente senza casco – seguono l’autobus della squadra, è sinfonia per chi descrive la città con l’enciclopedia dei luoghi comuni aperta sul tavolo. Ma una cosa è la festa (a festeggiare sono bravi tutti), decisamente altra è la costruzione di un progetto che ha riportato lo scudetto in città per la terza volta nella storia. Trentatré anni dopo, e stavolta senza il calciatore più forte del mondo. Il Napoli vittorioso è il sovvertimento degli stereotipi che da sempre soffocano lo storytelling di questi luoghi. È uno scudetto che sarebbe maledettamente piaciuto a Raffaele La Capria che non seguiva il pallone ma che aveva fotografato Napoli come pochissimi altri. Lo scudetto, il club, la squadra, l’allenatore, sono quanto di più distante possa esserci dalla napoletaneria, ovvero dal cliché che da sempre viene associato alla città. Neologismo coniato appunto da Dudù che teneva ben distinte napoletanità e napoletaneria.

Questo Napoli è la negazione dei luoghi comuni. Napoli è da sempre associata all’individualismo, anche nel pallone. «Per vincere, avete dovuto avere Maradona». E invece Spalletti ha plasmato la squadra nel principio sacro del collettivismo di cui è stato l’inflessibile guardiano. Si è battuto, talvolta in maniera persino eccessiva, contro l’idea che i risultati arrivassero grazie ai singoli. Si è speso fino allo sfinimento a spiegare che una squadra per vincere ha bisogno allo stesso modo del fuoriclasse e del calciatore che gioca otto minuti a partita. E il Napoli è una squadra in cui ciascuno si batte per l’altro. Di egoismi se ne sono visti pochissimi. Kvaratskhelia segna lo splendido gol contro l’Atalanta? E lui sta lì a elogiare il pallone recuperato in mezzo al campo da Anguissa grazie a un pressing asfissiante.

Parente prossimo dell’individualismo è quella strana creatura che va sotto il nome di «genio e sregolatezza». Che poi è un altro modo per dire che non ci si impegna abbastanza, che si lavora poco. Sempre lì si va a parare. Bufala macroscopica ma che piace tanto. Ecco, questo Napoli è stato un modello di abnegazione. Negli schemi su calcio piazzato, nei recuperi difensivi degli attaccanti, negli interventi da fine di mondo dei difensori. Il Napoli ha vinto perché ciascuno ha svolto la sua parte al meglio e lo ha fatto con costanza. Per nove mesi, praticamente senza mai mollare.

L’equilibrio. Termine che praticamente mai viene associato alla città. Eppure la gestione della squadra è sempre stata all’insegna dell’equilibrio. Che è emerso soprattutto dopo le sconfitte. Quando, dopo i Mondiali, il Napoli perse in casa dell’Inter, si diffuse una strana atmosfera di déjà-vu. Ecco, adesso crollano il Napoli e Spalletti. E invece la squadra ripartì più forte di prima. Rispose con otto vittorie di fila. Senza mai lasciarsi andare a proclami. A ogni passo falso, il Napoli ha reagito. Anche dopo la dolorosissima eliminazione dalla Champions. La città non ha parlato che dell’arbitraggio. Spalletti ha detto che sì, quello era rigore, ma non si è aggrappato alle recriminazioni. L’unica ricetta che conosce per uscire dalle difficoltà è il lavoro. E pochi giorni dopo il Napoli ha battuto la Juventus a Torino.

La simbiosi dei calciatori con Napoli. Qui il cambiamento è stato rivoluzionario. Siamo passati da Insigne e Ciro Mertens a giocatori che non spiccicano una parola d’italiano. Domenica sera, Osimhen ha fatto la sua diretta Instagram in inglese. Il rapporto della squadra con la città è stato decisamente meno morboso, più sano. Non c’è stata l’osmosi che aveva contraddistinto gli anni precedenti. Anche il capitano, con il suo essere silenzioso, è la negazione del luogo comune. Come se un napoletano non potesse essere taciturno.

Ovviamente non può mancare la parola programmazione. Siamo a un termine che arriva da un altro pianeta. Perché questa vittoria è figlia di una decisione politica, è figlia del rinnovamento. Addio ai rami secchi, idolatrati dalla folla, e l’ordine di rimpiazzarli con calciatori meno conosciuti (non per questo meno forti, anzi) e provenienti da mercati calcisticamente secondari. Kvaratskhelia e Kim sono figli di un progetto preciso. E avere un Napoli con diciassette nazionalità diverse – solo un argentino e un brasiliano in rosa – riporta la città alla sua vocazione naturale: essere crocevia di culture diverse, non napoletanizzare tutto ciò che passa da queste parti. Ma non è solo lo scudetto. Il Napoli di Aurelio De Laurentiis è una realtà marziana in città da quasi vent’anni. Guidato con principi di managerialità purtroppo estranei al governo locale. E che a lungo hanno reso il presidente uno straniero in patria, fortemente inviso alla piazza. È il motivo per cui quella foto con gli ultrà – con la scritta «Napoli siamo noi» – è un falso storico e una macchia, la più dolorosa, in una gestione che invece ha ridato orgoglio al concetto di napoletanità. È con la napoletanità che si vince. Con la napoletaneria si compiace solo chi ha una pessima idea di Napoli e dei suoi abitanti.

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