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Dal 16esimo all’80esimo la Juventus non ha mai tirato in porta

Con le idee e con il lavoro svolto quest’anno, Spalletti ha sopperito alla stanchezza della squadra. La Juve è come se fosse disabituata a creare

Dal 16esimo all’80esimo la Juventus non ha mai tirato in porta
Napoli's South Korean defender Min-jae Kim (L) fights for the ball with di Juventus' Argentinian forward Angel Di Maria during the Italian Serie A football match between Juventus and Napoli on April 23, 2023 at the Juventus stadium in Turin. (Photo by Isabella BONOTTO / AFP)

Predominio

La vittoria del Napoli sulla Juventus è arrivata di misura e durante i minuti di recupero del secondo tempo. Pochi minuti prima del gol di Raspadori, poi, la squadra di Allegri si è vista annullare un gol e ha protestato per un presunto fallo in area ai danni di Juan Cuadrado. Ecco, tutto questo lascerebbe pensare a una gara di sofferenza, se non addirittura di un successo casuale. Non è affatto così: il Napoli ha vinto meritatamente al termine di una partita in cui ha esercitato un evidente dominio tecnico, tattico e persino emotivo. Gli unici momenti in cui ha rischiato qualcosa, ne parleremo, hanno coinciso con le folate della Juventus. Che, però, è una squadra tendente – per scelta deliberata – a giocare a ritmi bassi, o al massimo ad aumentare l’intensità solo in fase di ripartenza. E che quindi si è rivelata un’avversaria non difficile da contenere.

Per certificare questa sensazione, come al solito, usiamo i dati. Uno su tutti: dal minuto 16 al minuto 80, la Juventus non ha mai tentato la conclusione verso la porta di Alex Meret. Sì, avete letto bene: zero tiri tentati. I giocatori bianconeri non hanno nemmeno scoccato un tiro deviato e/o finito fuori dallo specchio. Come detto in precedenza, la squadra di Allegri ha giocato a folate. La prima è durata un quarto d’ora, il primo quarto d’ora della partita, e ha portato a 4 tiri complessivi: 3 contenuti facilmente da Meret e uno fuori. Poi, però, è stato il Napoli a salire in cattedra. A prendere il comando della gara.

In alto, il 4-4-2 della Juve in fase di non possesso; sopra, Locatelli attacca Ndombélé alle spalle mentre tutti gli altri giocatori del Napoli sono seguiti da vicino da un marcatore dedicato.

Questi due screen raccontano chiaramente la primissima parte della gara: la Juve è scesa in campo con un 3-5-2 in fase offensiva che diventava 4-4-2 quando il possesso palla era del Napoli. La scelta di Allegri è stata quella di cominciare la partita con un pressing sostenuto, da qui le folate iniziali cui abbiamo già accennato, per poi ritrarsi sempre più verso la propria metà campo. Anche in questo caso sono i numeri a dirlo: nel primo tempo, il Napoli ha tenuto un baricentro medio ai 61 metri, mentre la Juventus ha appena superato quota 40 metri.

Insomma, per dirla brutalmente: Allegri aveva in mente di aggredire il Napoli e – magari – di segnare un gol nei primi minuti, così da tornare ad applicare il consueto piano-partita fatto di difesa bassa posizionale, di controllo fisico ed emotivo. È andata esattamente così, se non fosse che il gol non è arrivato. Anche perché la strategia della Juve è parsa piuttosto elementare: giro palla difensivo, ricerca dell’esterno in isolamento e tentativo di cross o di tiro in porta – pure piuttosto velleitario. Non a caso, viene da dire, 3 delle 4 conclusioni di cui abbiamo detto sono arrivate da fuori area; l’unica scoccata entro i 16 metri è stata quella di Milik, di testa su traversone di Kostic.

Possesso palla, centrocampo fluido e prevedibilità

Subito dopo il colpo di testa di Milik, il Napoli ha ripreso in mano la partita. E l’ha fatto nel modo che gli è geneticamente più congeniale: tenendo il pallone. Anche qui c’è qualche numero a supporto: fino al minuto 15′, il dato grezzo sul possesso palla diceva 48% Juve e 52% Napoli; per la restante mezz’ora di gioco, la percentuale del Napoli è salita fino al 76%. Si tratta di cifre bulgare legate ad alcune dinamiche tecnico-tattiche. Per esempio: il continuo interscambio di posizione tra i tre centrocampisti, con Ndombélé che spesso si trasformava in un trequartista ibrido per dare supporto agli esterni, soprattutto dalla parte di Kvaratskhelia; i movimenti a venire dentro il campo dell’esterno georgiano, così da fare maggior densità nel mezzo spazio di centro-sinistra; la precisione assoluta negli appoggi da parte di Anguissa (accuratezza dei passaggi pari al 97%) e Lobotka (97%).

Tutti i palloni giocati da Ndombélé: non proprio una mezzala

Al Napoli del primo tempo è mancata era un po’ di imprevedibilità offensiva. In questo senso, Osimhen ha offerto una prestazione che si potrebbe anche definire abulica. Certo, la disposizione e l’atteggiamento della Juventus non gli hanno permesso di attaccare facilmente la profondità, e quindi i compagni non hanno potuto cercarlo in quel modo, ma è evidente che il centravanti del Napoli non è ancora nelle migliori condizioni possibili. O, quantomeno, al momento non è in grado di correre alle spalle dei difensori avversari con continuità, di allargare e allungare il fronte offensivo del Napoli come avveniva fino alla sosta per le Nazionali. Nel secondo tempo, ma ne parleremo più avanti, il suo apporto è migliorato anche perché in qualche modo è cambiato, proprio come concetti, come posizionamenti e meccanismi.

La Juventus, quindi, ha avuto vita facile a difendersi. Dopo un quarto d’ora iniziale pure promettente, ha praticamente smesso di giocare a calcio in quanto gioco offensivo. Niente per cui condannarla, in fondo anche rimanere bassi in area di rigore è una strategia. La squadra di Allegri l’ha applicata bene e alla fine ha chiuso il primo tempo con appena 4 conclusioni concesse: una fuori di Ndombélé, una a testa per Lozano, Osimhen e Kvaratskhelia, tutte deviate dai difensori in maglia bianconera.

Il punto, però, è che a lungo andare questo tipo di atteggiamento conservativo – per non dire speculativo – ha portato la Juventus a diventare macchinosa e imprecisa nel possesso palla. Nella costruzione dal basso. E allora al Napoli bastava alzare il ritmo del proprio pressing per andare a recuperare la palla in zona avanzata di campo e costruire occasioni da gol in transizione. È successo nel primo tempo, in occasione del tiro di Ndombélé. È successo in apertura di ripresa, ancora con il centrocampista francese chiamato alla conclusione:

Con tutta probabilità, appoggiare il pallone su Kvaratskhelia sarebbe stata una soluzione più efficace

In poche parole: la Juventus di Allegri è una squadra che, per scelta, passa gran parte delle sue partite a difendersi. Per poi ripartire in contropiede. C’è da dire che spesso tutto questo gli riesce bene. Allo stesso tempo, però, questo piano tattico è come se l’avesse disabituata a creare gioco in modo lineare a partire dalla difesa, così quando la prima costruzione viene attaccata in modo coordinato e aggressivo, per di più da giocatori – come Anguissa, in questo caso – che hanno anche una certa fisicità, allora diventa vulnerabile. Anche in questo senso si può leggere l’inserimento da titolare di Ndombélé ieri sera.

La conseguenza di tutto questo è che la Juventus vista ieri, proprio come fa di solito, ha finito per rinunciare quasi completamente a costruire azioni in modo autonomo. Si è affidata a delle velleità di ripartenze in campo aperto che, però, se guardiamo alla formazione vista contro il Napoli, appartenevano solo a Cuadrado e Kostic e (forse) a Rabiot. Non certo a Milik, non certo a Soulé, tantomeno a Miretti. La musica è un po’ cambiata quando sono entrati Chiesa e Di María, ma resta evidente la disfonia – quindi la disfunzionalità – del piano-partita di Allegri rispetto alle caratteristiche dei giocatori scelti come titolari.

Osimhen

Vi avevamo promesso una digressione su Victor Osimhen. Su un Osimhen diverso, cambiato, per far fronte a una condizione fisica che da parte sua è ancora evidentemente deficitaria. La sua mutazione, però, è anche frutto di un altro tipo di intelligenza calcistica: quella di tipo tattico-interpretativo, per cui un giocatore comprende cosa può e cosa deve fare per mettere in difficoltà la squadra avversaria, dove e come può muoversi per essere determinante. E allora si adatta.

Nel caso di Osimhen e di Juventus-Napoli, soprattutto se guardiamo all’ultimissima fase di partita, abbiamo assistito a un passaggio di stato: il centravanti nigeriano ha assunto il ruolo di attaccante-pivot, non ha aggredito più l’area di rigore e la profondità con la consueta rapacità, piuttosto ha lavorato da muretto e di sponda, come se fosse una lavatrice dei palloni che gli sono stati recapitati, ha fatto a sportellate con i difensori della Juve e ha creato spazi per i compagni e anche per sé.

Due azioni consecutive, e in mezzo c’è il rigore richiesto da Cuadrado

Nel secondo tempo queste azioni sono state più frequenti, da parte di Osimhen. È così che il centrocampista del Napoli è entrato gradualmente in partita, fino al punto da sfiorare il gol decisivo – un suo tiro deviato ha colpito il palo esterno alla sinistra di Sczcesny – e da avere l’occasione più nitida, dopo un meraviglioso scambio con Piotr Zielinski. Anche i numeri, come succede quasi sempre, supportano questa tesi: il centravanti nigeriano del Napoli è riuscito a scoccare una sola conclusione, per altro deviata da un avversario, nel primo tempo. Nella ripresa, lo stesso dato è arrivato a quota 5. Tutti i suoi tiri sono stati tentati dall’interno dell’area di rigore. Anche questo è un dato significativo.

Le ripartenze della Juve ed Eljif Elmas

Come già detto e spiegato più volte, dopo il primo quarto d’ora la Juventus ha cercato di colpire solo in ripartenza. Come detto già in precedenza, molti dei giocatori scelti da Allegri non erano e non sono geneticamente inclini a questo tipo di calcio. Non è un caso, quindi, che la Juventus sia tornata ad avere folate di una certa pericolosità solo dopo i cambi. Dopo gli ingressi di Di María e Chiesa. Due calciatori che non sono solo bravi nello stretto, ma sanno essere determinanti anche in campo aperto. I due gol annullati alla Juventus, non a caso, nascono da azioni in cui sono stati proprio Chiesa e Di María a creare le condizioni perché l’azione diventasse pericolosa.

C’è anche da dire che nel frattempo il Napoli si era un po’ allungato e sfilacciato, complice l’ingresso in campo di Raspadori e il passaggio a una sorta di 4-2-3-1 spurio e asimmetrico con Zielinski a svariare su tutto il fronte offensivo, Elmas larghissimo sulla destra e Raspadori a dividersi tra fascia centrale e zona di sinistra.

Proprio gli ingressi di Zielinski, Raspadori ed Elmas hanno determinato il risultato finale della partita. Perché è da loro che nasce l’azione del gol. Nel video precedente abbiamo visto com’è stata costruita l’occasione Zielinski-Osimhen, quanto siano state importanti la sensibilità tecnica e la lucidità di Zielinski, e allo stesso modo è il centrocampista polacco ad aprire il pallone su Elmas un attimo prima del cross decisivo. Lo stesso Elmas che, entrando dalla panchina, ha ampliato il set di giocate e movimenti dell’attacco del Napoli, grazie alla sua imprevedibilità, alla capacità di muoversi da ala vecchio stampo ma anche di entrare nel campo palla al piede, senza offrire punti di riferimento ai suoi avversari.

Un gol dal peso specifico enorme

Il fatto che in questo video ci sia di nuovo anche l’azione di Zielinski e Osimhen nasce dall’esigenza di mostrare quanto incida la mancata copertura di Cuadrado, attardatosi nell’altra area di rigore e poi nella metà campo del Napoli, sullo scivolamento difensivo della Juventus. Osimhen e Anguissa, infatti, sono marcati nel modo giusto dai loro avversari. Raspadori, invece, è solo sul secondo palo. Su di lui doveva esserci Cuadrado. Non a caso, insomma, Massimiliano Allegri ha detto che la Juventus «ha subito un gol da polli». Tatticamente, pur se colorita, è una definizione ineccepibile.

Conclusioni

La vittoria colta ieri dal Napoli è una vittoria delle idee. E della qualità, anche se in versione ridotta per via di una condizione fisica che non è più brillantissima – da Osimhen in giù. È evidente come la squadra di Spalletti sia arrivata stanca a questo finale di stagione, così come è certo che gli infortuni delle ultime settimane – primo tra tutti quello di Osimhen – abbiano acuito la sensazione di riserva energetica trasmessa dagli azzurri.

Il punto, però, è che Spalletti ha cucito un sistema su misura addosso a una rosa davvero molto forte, se inserita nel contesto della Serie A – un torneo che si gioca sul lungo e in cui i valori vengono fuori in maniera più certa. E così una squadra vistosamente in calo ha comunque messo insieme 13 punti nelle ultime sei partite domestiche. E va a vincere senza soffrire più di tanto in casa della Juventus.

Ci sarà modo e tempo di celebrare Luciano Spalletti, ma quanto successo ieri è davvero un premio importante per ciò che ha fatto. È come se fosse una certificazione, un timbro sotto un trionfo finale – ormai alla portata – che sarà suo, della società e dei calciatori, un terzo ciascuno. In fondo i risultati fanno sempre la differenza, cambiano le percezioni, indirizzano giudizi e opinioni: battere la Juventus – anzi: dominarla – due volte, seppur con risultati diversi, e infliggerle 19 punti di distacco in classifica vuol dire aver fatto le cose giuste, vuol dire aver trovato la formula giusta, con i migliori strumenti/elementi a disposizione.

Vincere, insomma, è una cosa che non avviene mai per caso. Ed è un discorso che può valere per una partita e per lo scudetto, ma tra vincere una partita e vincere lo scudetto c’è tantissimo lavoro da svolgere. Ecco, Spalletti l’ha svolto in modo davvero eccelso.

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