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Bobby Solo: «Mi rubarono i diritti di ‘Una lacrima’. Mi spettava 1 miliardo, ho visto solo 4 milioni»

A La Verità: «Oggi rende 2500 euro ogni sei mesi. Mia madre era molto fiera di me, mio padre per niente. Al primo provino alla Rai mi dissero ‘Lei non canterà mai. È negato’»

Bobby Solo: «Mi rubarono i diritti di ‘Una lacrima’. Mi spettava 1 miliardo, ho visto solo 4 milioni»

La Verità intervista Roberto Satti, in arte Bobby Solo. Nel 2023 festeggerà 60 anni di carriera pubblicando un’autobiografia e un quaderno di pensieri sul senso della vita per l’editore Bertoni.

«I miei primi 45 giri li ho incisi nel 1963. Tre in un anno. Non vendevano nulla. Andavo, da solo, a comprare i miei dischi, a Milano in corso Vercelli, al negozio «Discoland», a 400 metri da casa mia, abitavo a via Frua numero 15. Dicevo: «Mi dà 4 dischi di Bobby Solo?». Tanto non mi riconosceva neanche il proprietario. Mia zia, a Trieste, comprava 5-6 dischi per aiutare la baracca».

Bobby Solo racconta le sue origini. Padre e madre nati a Trieste, la nonna istriana, di Pola, la bisnonna del Montenegro. Oggi vive a Pordenone con la moglie e il figlio. Il padre era un pilota dell’Aereonautica, ebbe due medaglie d’argento combattendo in Etiopia contro gli aerei inglesi. Lavorò anche in Alitalia.

«Mio padre era molto severo con me, del 1906, un colonnello, non amava la professione del cantante ma solo l’opera e la musica sinfonica. Non ha mai gradito che facessi l’artista. Mia madre una donna piccola e molto intelligente, innamorata persa di me, è stata quattro mesi ferma immobile altrimenti non sarei nato. È sempre stata molto fiera di me, mentre mio padre per niente».

Da bambino era timido, ma quando, a 17 anni, si trasferì a Milano con la famiglia, fondò un gruppo.

«Sì, superai la timidezza. Ma suonavamo per 80 persone nei club del partito socialista e dell’Unione donne italiane. La prima volta a Sanremo ero molto emozionato. Mi sparì la voce e cantai in playback. In una sola notte arrivarono 300.000 ordini di 45 giri di “Una lacrima sul viso”. È il disco che ha venduto di più negli anni ’60, due milioni e mezzo di copie in Italia e 12 milioni nel mondo».

Bobby Solo racconta:

«Sono l’autore della Lacrima, ho composto la musica, Mogol le parole. Ero ignaro delle regole, avevo firmato a
settembre del ’63, ma quando Ravera è impazzito per me e ha deciso di portarmi a Sanremo nel ’64, la casa discografica mi obbligò a stracciare il bollettino Siae, facendolo firmare al loro direttore artistico che mi ha pagato una briciola. Su un miliardo mi ha dato 4 milioni e mezzo».

E poi che successe?

«Non ho preso nulla sino a quando questo direttore artistico è andato in miseria in Brasile, moriva di fame. Allora
Red Ronnie e Mogol lo contattarono, dicendogli: «Sei già anziano, prima di morire restituisci la canzone a Bobby
Solo». Lui è venuto dall’avvocato Costa e mi ha restituito i diritti, ma la canzone rende 2000-2500 ogni sei mesi e non è più quel miliardo che mi hanno rubato».

In questa brutta storia c’è anche un fatto di crimine. Bobby Solo racconta:

«Io non posso dire che sia stato ucciso apposta, ma tra il ’68 e ’70 un mio zio avvocato, triestino, Turi Isalberti, camminava a piedi, a Roma, e fu investito a largo Ponchielli, una zona dove viaggiavano auto, da un pregiudicato di Vizzo. La borsa nera che aveva con sé, con le prove della truffa, non fu più trovata».

Come nacque Una lacrima sul viso?

«Rimasi affascinato dalla progressione degli accordi della canzone The chapel in the moonlight, del ’54, di Dean
Martin. Cambiai la melodia, altrimenti sarebbe stato un plagio. La accennai a mia mamma, a casa a Milano, in
cucina, mentre bolliva le patate per papà. Lei disse: «Mi piace questa canzone».

E poi con Mogol nacquero le parole…

«Ci incontrammo, per andare alla Ricordi, a piazza Duomo e lui mi dice: «Non ho avuto tempo di comporla». Rispondo: «Lasciamo perdere». E lui: «No no, guidiamo e la facciamo» (ne intona il motivo). Siccome Mogol è un genio, in 20 minuti ha tirato fuori le parole».

Bobby Solo racconta le origini della sua passione per Elvis Presley.

«A 14 anni m’innamorai di una mia coetanea, Betsie McGurn. Era del Wyoming e suo padre un giornalista del
New York Herald Tribune, corrispondente a Roma. Lei parlava sempre di Elvis. Io non lo conoscevo. La sorella del primo marito di mia mamma, che aveva 28 anni, mi mandò tre 45 giri di Elvis e due vinili. Io, vedendo il ciuffo, me lo feci fare identico, ma la mia fidanzatina – neanche un bacio ci demmo – mi diceva: “Hai il ciuffo ma non canti”».

E quindi?

«Mi feci regalare da mamma una chitarra economica, «Carmelo Catania», e cominciai a strimpellare per imitare
Elvis ed essere gradito a Betsie. Mia madre era amica dello sceneggiatore Giuseppe Patroni Griffi. Feci un provino alla Rai. Mi esaminarono 6 signori di 60-70 anni. Io ne avevo 14, tremavo dalla paura. Mi dissero: «Signor Satti, vada al liceo. Lei non canterà mai. È negato». Stavo per morire dal dispiacere ma, uscendo dalla Rai, il leggendario chitarrista Mario Gangi, allievo di Segovia, mi prese sottobraccio dicendomi: «Non ascoltare quei vecchi tromboni, continua a cantare con il tuo stile e vedrai che ce la farai».

Il cantante che oggi conquista il successo, guadagna di più o di meno di un tempo?

«Prende briciole, guadagnano le case discografiche che hanno inglobato tutte le piccole etichette. Oggi sono 2-3, negli anni ’60 almeno 25. Vent’anni fa, quando c’era il cd, un cantante prendeva il 20-25% su un cd. Oggi al massimo si acquistano 3 canzoni scaricate da Spotify a 90 cent l’una. Quindi guadagno sui 2 euro e 70, non più sui 16 euro di un cd. Ma le poche case discografiche hanno un repertorio di milioni di canzoni».

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