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Bianchi: «Quando arrivai a Napoli c’era mondezza ovunque, ebbi l’impulso di tornare a Brescia»

A Robinson: «Di Maradona colpiva il rapporto con la squadra, sapeva di aver bisogno dei compagni. Sivori sentiva talmente la partita che prima di giocare aveva dei conati».

Bianchi: «Quando arrivai a Napoli c’era mondezza ovunque, ebbi l’impulso di tornare a Brescia»
1986 archivio Storico Image Sport / Napoli / Ottavio Bianchi / foto Aic/Image ONLY ITALY

Su Robinson, settimanale di Repubblica, Antonio Gnoli intervista Ottavio Bianchi. Ha quasi ottant’anni. Racconta che di recente gli hanno impiantato due protesi alle ginocchia, un’operazione complicata e dolorosa che adesso gli richiederà del tempo per tornare a camminare bene. Bianchi racconta di quando era ragazzo, quando pensava che nella vita «ci fosse solo il calcio» e della sua famiglia.

«Semplice, le umili origini paterne non consentivano grandi voli o azzardi. Non ero certo che il calcio fosse, oltre al sogno, anche una professione praticabile».

Parla della sua infanzia.

«Sinceramente non la ricordo, o meglio ricordo che tutto quanto mi riguardava ruotava intorno al pallone. Di solito si tende a dilatare la propria adolescenza. Ma credo di non averne avuta una plausibile. Il fatto che fossi bravo a pallone mi ha tolto il periodo della spensieratezza. Per me giocare a calcio è stato da subito come entrare nella vita vera: impegno, sudore, professione. Vincere o fallire».

Una determinazione che gli veniva dal suo carattere, che descrive.

«Schivo ma tenace. Un tempo una professione come la mia si misurava dal numero delle parole: se erano poche coglievano l’essenzialità di quello che facevi».

E oggi?

«Non basterebbe un intero vocabolario. Il calcio parlato ha superato di gran lunga quello giocato».

Bianchi esordì nelle giovanili e poi nella prima squadra del Brescia, come regista offensivo. Nella prima partita contro il Como si ruppe un ginocchio, così l’allenatore gli chiese di fare il mediano.

«Divenni quello che aggrediva le caviglie dell’avversario. Diciamo un giocatore destinato a contrastare il gioco dell’altro».

Dopo il Brescia, arrivò il Napoli, proprio quando stava per passare all’Inter.

«Allora le società di calcio esercitavano potere assoluto sui giocatori. E il presidente del Brescia aveva deciso destinazione Napoli».

Era soddisfatto per la scelta?

«Ovviamente la chiamata all’Inter era il sogno di ogni giocatore. Ma anche al Napoli, che non aveva vinto niente, c’erano grandi giocatori: Zoff, Sìvori, Altafini per fare nomi che ancora oggi dicono qualcosa».

Bianchi racconta il suo arrivo al Napoli.

«Nel 1965. Con il taxi, che mi portava alla sede, attraversai una città che stava vivendo uno dei tanti scioperi degli spazzini. Mondezza ovunque. Dissi al tassista di fermarsi. L’impulso era fare dietrofront e tornarmene a Brescia. Ma ero vincolato. Non avevo margini tranne quello di spuntare un contratto un po’ più ricco. Dissi al tassista di proseguire. Giunsi in sede e dopo varie vicissitudini firmai il contratto».

All’epoca il presidente era Achille Lauro.

«Non c’era cosa che accadeva a Napoli senza il suo sì. Un monarca assoluto. Trattava il popolo napoletano come fosse una sua diretta emanazione. Circolavano le voci sulla distribuzione di pacchi pasta e di scarpe spaiate durante le elezioni. Comunque era un signore che incuteva rispetto. “Guagliò, mi hanno detto che tu si’ uno tuosto e che ti sei fatto pagare assai”. Gli risposi che mi ero fatto pagare per merito e certo non per altro. Fu così che cominciò la mia avventura al Napoli».

Bianchi racconta come visse Napoli da calciatore.

«Quel primo anno fu funestato da vari infortuni. Mi ruppi l’altro ginocchio, mi venne una peritonite, restai fermo tutto il girone di ritorno. Premesso che i drammi veri sono altri, fu una botta tremenda. A quel punto la carriera era a rischio e dovevo reagire. Dimostrando sul campo di non avere niente, anche quando stavo male. Mascherare certi malesseri e al tempo stesso avere una grande determinazione. La sola cosa che non volevo fare era piangermi addosso, pur consapevole che non ci fosse nessuna certezza sul mio futuro. Oltretutto mi ero sposato giovane e dovevo tenermi ogni cosa dentro. Non c’erano gli psicologi o come li chiamano oggi i mental coach».

Parla dei grandi giocatori che militavano nel Napoli di allora.

«Sivori era il più talentoso. Sentiva talmente una partita che la sera prima in albergo non riusciva a dormire. Poi, prima di scendere in campo, aveva dei conati. Ma quando entrava, come un grande attore, si trasformava e la recita quasi sempre era superlativa».

Anche Bianchi sentiva la tensione della partita?

«No, la sera dormivo benissimo, per me il dramma era il dopo. Rivedevo mentalmente la partita cercando di capire dove si era sbagliato».

È sempre stato così autocritico?

«È un sentimento che mi sono portato dietro anche come allenatore».

Bianchi parla del rapporto con Maradona.

«Mi hanno spesso sollecitato a parlare di Diego. Le poche volte che l’ho fatto è stato con discrezione per le vicende umane che l’hanno travolto, al di là del campione immenso che è stato».

Continua:

«Lei non può immaginare cos’era vederlo in campo durante gli allenamenti. A parte l’abilità mostruosa, colpiva il rapporto con la squadra. Da star assoluta qual era, sapeva di aver bisogno dei compagni. Diego è stato uno splendido e generoso campione».

Come uomo?

«Uno dei suoi grandi amici fu il suo preparatore Fernando Signorini. Lo sentii dire una grande cosa: con Diego io faccio il giro del mondo, con Maradona non riuscirei a fare il giro dell’isolato. Il Diego calciatore era la leggerezza, la musica inarrivabile; il Maradona uomo era soggetto a pressioni psicologiche inaudite. Ha pagato con gli interessi l’immensa notorietà che si era guadagnato sul campo».

Come si gestisce un grande giocatore?

«Non lo so, ma so che deve avere intorno un ambiente che lo lasci maturare. Quanto all’allenatore, deve sapere che il grandissimo giocatore non si adatta alla tattica. È come con la musica jazz, c’è l’improvvisazione, quella cosa che non ti aspetti e che fa la differenza. Ho giocato contro i più forti calciatori: Pelè o Cruijff per fare dei nomi. Li ho dovuti braccare come fossero prede irraggiungibili. Ricorrere ai mezzi umani che avevo per tentare di fermarli. Per loro il pallone era il prolungamento del piede. Il campo il loro Olimpo. E lì impari a tue spese che il grande giocatore non complica il gesto atletico. Rende il difficile semplice. Tutto quello che è bello nella vita è riconducibile alla semplicità».

Come è cambiato il calcio rispetto a quando era lei a praticarlo?

«Basterebbe fare due conti. Un calciatore di fascia medio alta guadagna oggi intorno ai due milioni. Provi a chiedere a un imprenditore che ha 100 operai se riesce a realizzare alla fine dell’anno un utile di due milioni. Un calciatore oggi è il centro di una costellazione opaca: avvocati, commercialisti, famiglie, procuratori, amici mettono in moto interessi e appetiti rilevanti. Un buon giocatore una volta, a fine carriera, metteva via due o tre appartamenti. Era la società che lo teneva sotto contratto, decidendo della sua vita professionale. Capisce che è impossibile un paragone con il calcio di oggi».

C’è stata un’evoluzione?

«Culturalmente c’è stata la scuola danubiana, l’epopea del grande Brasile di Pelè, il pragmatismo della scuola italiana che ha vinto molto, quella olandese, che però non ha vinto niente. Adesso c’è il tiki taka che necessita di giocatori di grandissima intelligenza e fluidità. Quando giocavo o allenavo se qualcuno passava la palla al portiere veniva giù lo stadio per i fischi. Oggi il portiere partecipa direttamente al gioco. Oggi un grande allenatore dà alla società la lista della spesa. Quando allenavo io dovevo arrangiarmi. Più che di evoluzione parlerei di scenari differenti».

 

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