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Archibugi: «Ho avuto una famiglia terrificante, litigiosissima. Scappavo sempre a casa dei miei amici»

Al CorSera: «Quando non giro mi sfogo con la fatica fisica, zappare, mettere mani nella terra. Ho una passione: costruire muretti a secco»

Archibugi: «Ho avuto una famiglia terrificante, litigiosissima. Scappavo sempre a casa dei miei amici»

Il Corriere della Sera intervista la regista Francesca Archibugi. Ha debuttato come regista con «Mignon è partita», ha firmato film come «Il grande cocomero», «Il nome del figlio», «Vivere». Ha vinto diversi David di Donatello, Nastri d’Argento e Ciak d’oro. Nelle sale è adesso presente il suo «Il Colibrì», tratto dal romanzo di Sandro Veronesi: si avvicina ai 3 milioni di euro di incasso.

Prima di dedicarsi alla sceneggiatura e alla regia, la Archibugi ha recitato come attrice in due film, a inizio anni ’80. Racconta che si sentiva molto in imbarazzo, era giovanissima e si rendeva conto di non essere brava. Ma di aver capito in quel momento cosa fosse il cinema.

«Sono figlia di genitori separati, mio padre non sapeva cosa fare con i figli e ci portava a vedere di tutto, anche Antonioni. A volte mi addormentavo in sala. Crescendo, ho affinato il mio gusto, mi piaceva per esempio il cinema di Polanski. Sono sempre stata una grande lettrice ma non avevo capito che cinema e romanzo avessero la stessa dignità. L’ho capito su quel set».

Non pensava che la regia sarebbe stata il suo lavoro.

«Andavo tanto al cinema, ho visto tutti i film possibili, ero onnivora. E scrivevo soggetti, sceneggiature, film, sono partita in quarta. Ma non pensavo sarebbe stato il mio lavoro. All’università mi ero iscritta a Psicologia. Ecco, forse mi immaginavo psicologa. Ma scrivevo già da piccola, poesie. Gli anni del Centro Sperimentale di Cinema sono stati i più felici della mia vita. Ancora non hai ancora un mondo fuori, è tutto lì. Si sono creati legami duraturi. Io per natura sono tendenzialmente monogama, anche nel lavoro. Ci sono legami che una volta stretti sono difficili da sciogliere».

Ad esempio, spiega Archibugi, quello con Paolo Virzì, Francesco Piccolo e Nanni Moretti. Dice che per convincere Moretti a recitare ne «Il Colibrì» sono serviti dieci pranzi.

«Sì. Ma avrei continuato con altri inviti, se necessario. Insiste nel dire che non è un attore ma io avevo proprio bisogno di lui per il ruolo dello psicanalista Daniele Carradori. Un tipo un po’ metafisico. Mi serviva desse tridimensionalità, che si portasse da casa la sua autorevolezza».

Moretti incute soggezione a tanti, ma non alla Archibugi.

«Lo conosco da una vita, gli voglio bene. È un grande regista, è stato dolce, presente. È un uomo generoso. Lavorare con lui è stato semplice. Quando ho iniziato con questo mestiere, per un genio come Nanni c’erano morettismi insopportabili. Ero incazzata con il cinema italiano, mi sembrava che ci fosse un mondo di storie da raccontare. Come insegnava Furio Scarpelli: gli sceneggiatori, diceva, dovevano fare la spola tra la biblioteca e il set. Amo il cinema letterario».

La Archibugi si descrive: non le piace essere al centro dell’attenzione.

«La persona che invidio di più al mondo è Elena Ferrante. La stimo come scrittrice e la ammiro come essere umano. Se avessi saputo mi sarei messa il cappuccio in testa. Non mi paragono a lei, è bravissima. Ma invidio idea di poter avere la tua vita, mantenere la tua identità nascosta, non essere condizionato da come gli altri ti vedono. Siamo delle spugne che vanno al supermercato, prendono autobus, frequentano amici, esplorano il mondo. Farlo sotto mentite spoglie è il massimo».

È stata una bambina e ragazza felice?

«Difficile da dire. Ho avuto infanzia e adolescente vivida a tinte forti, piene di conflitti, la mia era una famiglia terrificante, litigiosissima. Tutte le domeniche finivano in liti tra figli, fratelli, fratellastri, mogli, mogliastre. Quello che ho patito della famiglia era l’enorme conflittualità, anche mia madre con suo padre, mio padre con sua madre. Tutti litigavano e io mi ero sempre fatta gli affari miei. Mi riconosco in una personaggio di Cani neri di Ian McEwan. Lui che andava nelle case altrui e diventava il beniamino delle famiglie dei suoi amici e pian piano si irritavano. Io facevo così. Ero il paguro che andava nelle famiglie degli altri, se erano amici le madri volevano che mi fidanzassi, se erano amiche non mi volevano più perché mi portavano a esempio. Andavo a dormire a casa di amici, ci restavo due o tre giorni».

Cosa fa la Archibugi quando non gira film?

«Vado nella nostra vera casa, in Toscana, lì tengo quasi tutti i miei libri. Dove ho una bella coltivazione di rose, c’è grande legame tra scrittura e giardino, da Virginia Woolf a Pia Pera. Lo sfogo è la fatica fisica, zappare, mettere mani nella terra. Ho una passione: costruire i muretti a secco. Se trovo un bel pietrone non resisto».

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