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«Non credo al suicidio di Tenco. Il messaggio che lasciò è troppo stupido. E lui non era stupido» 

Il CorSera intervista Ricky Gianco. «Jannacci era imprevedibile anche per se stesso. Era formidabile, anche se mangiava le parole».

«Non credo al suicidio di Tenco. Il messaggio che lasciò è troppo stupido. E lui non era stupido» 

Il Corriere della Sera intervista Ricky Gianco. Cantante, compositore e discografico, è considerato uno dei padri della musica rock italiana. A 17 anni ha fondato la band “Ricky Sanna e il suo complesso” con Luigi Tenco e Enzo Jannacci. Nel 1961 è entrato nel Clan Celentano, la casa discografica di Adriano. Ha scritto canzoni per Mina, Patty Pravo, Little Tony e tanti altri. Racconta l’incontro con Celentano, quando aveva 18 anni.

«Mi sente cantare all’Alcione (o allo Smeraldo). “Oe tu sei forte mi dice… Come ti chiami? Ricky? Peccato che non hai la erre”. Già, era un grave problema. Non mettevo la lingua correttamente fra i denti. Ne parlai con mia madre che mi mandò a lezione di dizione. E nel giro di qualche mese, mettendoci molto impegno, la erre riapparve. Tempo dopo incontro Celentano che mi dice subito “ma tu sei quello che non aveva la erre, come hai fatto?”. E io mentii. “Ho un papà ricco e me l’ha comprata lui”. A questo punto Celentano mi parlò del Clan e il primo disco fu il mio Vedrai che passerà e Non c’è pietà (cover di Unchain my heart portata al successo da Ray Charles nel ’61) che inaugurò questa etichetta discografica anomala».

Gianco parla di Tenco.

«Lui non era quello che appariva. Le descrizioni che lo riguardavano erano spesso fuorvianti. Lui non si vendeva, era simpatico, allegro. Non era un introverso… giocava forse a fare il James Dean».

E sulla sua morte:

«Non credo al suicidio di Tenco… Forse un gioco strano. Che spiegherebbe il messaggio. La calligrafia è sua ma il testo è troppo stupido. E lui non era stupido».

Gianco su Jannacci:

«I primi dischi per la Ricordi li ho fatti con lui che era un bravissimo pianista. A un certo punto mettemmo su una orchestrina. Firmammo un contratto di un mese alla Villa Romana di Alassio. Io alla chitarra, Enzo al piano e altri fra cui uno zio di Fabio Concato. Jannacci era imprevedibile anche per se stesso. In scena scattavano dei meccanismi incredibili. Lui era formidabile. Poco prima che morisse ci siamo raccontati delle barzellette. Io non capivo le sue perché lui mangiava le parole. Sono contento che gli abbiano dedicato un rifugio per i senzatetto».

Gianco racconta anche dell’omosessualità di Umberto Bindi.

«L’ho conosciuto che avevo 17 anni. Sempre gentile. Arrivava da Genova su un’auto guidata da un autista che lui presentava come un cugino. Una volta accompagnai Bindi in una gioielleria. Comperò un anello e spese quasi 2 milioni ’63. Tempo dopo notai che l’autista aveva quell’anello al dito. Raccontai l’episodio a mia madre. Con freddezza disse: «Non ti interessare della cosa, non sono affari tuoi. Pensa ad altro. La mamma aveva capito. Io no”».

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