A Il Fatto Quotidiano: «Secondo me L’avvelenata è sopravvalutata. Ne ho scritte a decine di superiori. Non ho gli stessi gusti del pubblico».
Su Il Fatto Quotidiano una bellissima intervista a Francesco Guccini. Dopo dieci anni è tornato ad incidere un disco “Canzoni da intorto”.
«La voce è come le gambe per un atleta: se smetti di allenarla, poi devi ricominciare tutto da capo».
Nel disco ci sono tante cover. Anche Sei minuti all’alba, capolavoro del primo Jannacci.
«Enzo era bravo, ma quando mi telefonava era un incubo: bofonchiava e non capivo nulla. Gli ripetevo “Cosa hai detto, Enzo?”, ma lui andava avanti e io a quel punto facevo finta di capire: “Va bene, Enzo”, “Certo, Enzo”».
A Guccini viene chiesto se è consapevole del suo talento. Risponde:
«Per niente. Non riascolto mai i miei dischi e i miei genitori mi hanno cresciuto “masato”. Basso profilo e zero complimenti. Ciò mi ha reso insicuro e molto timido. Non ho assolutamente autostima. Anche durante i concerti ero terrorizzato, come quando davo gli esami all’università».
Il fiasco di vino sul palco aiutava?
«Non era un fiasco, ma una semplice bottiglia. Bevevo rosé, e pure poco, perché sul palco devi essere lucido. Uno o due bicchieri di rosé. E a tavola quasi sempre Traminer».
Anche De André aveva paura del pubblico.
«Lui beveva whisky, e all’inizio neanche poco. Prima dei concerti mangiava solo due “uova all’ostrica”: buttava giù il tuorlo con un po’ di limone e via. Io no. Avevo un genovese sciagurato che mi seguiva per il catering. Libagioni infinite di cibo e vino nei camerini. Mangiavamo tantissimo sia prima che dopo i concerti».
Qual è la canzone di cui vai più fiero? Guccini risponde:
«Quelle che il pubblico non direbbe. Una volta Vasco è venuto in trattoria e mi ha detto che, secondo lui, L’avvelenata è straordinaria. Okay, fa piacere, ma secondo me L’avvelenata è sopravvalutata. Ne ho scritte a decine di superiori. A me piacciono molto di più brani meno fortunati come Amerigo e Odysseus. Evidentemente non ho gli stessi gusti del pubblico».
Guccini racconta che negli anni Settanta sfidava Benigni in duelli di poesia improvvisata.
«Erano duelli di poesia improvvisata. Gli lasciavo rime impossibili: “taxi/Craxi”, “mirra/birra”. Lui mi mandava affanculo, poi però se ne usciva con trovate geniali».
Benigni, però, non lo sente più, anche se, dice, «eravamo molto amici all’inizio della sua carriera». Ora si sono persi di vista. Invece continua a sentire Ligabue («Ci vogliamo bene») e Zucchero, che lo adora.
«E io adoro lui, solo che a volte esagera. L’altro giorno è passato e, abbracciandomi, mi ha stretto così tanto che mi ha fatto venire i lividi. Zucchero è fumantino e, come tutti quelli che hanno venduto un milione di copie a botta, ha il terrore di perdere il successo. Io, che mi sono fermato a 300 mila copie, mi sono salvato. Però una cosa ce l’abbiamo in comune. Il fastidio per chi, come dice Zucchero, “lecca la tazza del cesso per avere successo”. Io, forse con più stile, preferisco dire: “Non mi sono mai infilato una piuma di struzzo nel culo per cantare”. Questi artisti finti, questi trapper, gente che si fa chiamare Ernia… ma che roba è?».
Diranno che sei anacronistico.
«Me lo dicono da sempre, e menomale. Non vado quasi mai in tivù, non so guidare, non ho la patente e non ho
neanche il telefonino. Quando in conferenza stampa mi hanno fatto notare che il nuovo disco non era disponibile in streaming, ho risposto che neanche so cosa sia lo streaming».
Guccini ha scritto anche spot pubblicitari. Racconta:
«Una volta scrissi uno spot per Ciccio Ingrassia e Franco Franchi. Tra loro si odiavano, letteralmente. Giocavano a carte, ognuno in coppia con un suo dipendente, e quando perdevano davano la colpa al “sottoposto”. Una dinamica brutale da padrone e schiavo».
Per te le carte sono sacre.
«Sono un ottimo giocatore di scopa, briscola, tressette e scopone scientifico. Anche con De André ci sfidammo a
Bologna, dopo un suo concerto con la Pfm. Quello che perdeva doveva dare mille lire all ’altro. Finì uno a uno. Da qualche parte devo ancora avere le mille lire firmate da Fabrizio. Giocherei anche a Pavana, ma non arriviamo mai a
quattro: i miei amici sono quasi tutti morti, e poi Pavana è diventata borghese. Prima si lanciavano delle Madonne incredibili durante le partite, ora son tutti casti. Prima si giocava per un fiasco di vino, adesso per un caffè o le caramelle. Roba da matti».
Perché Pavana è così importante?
«Perché ci sono cresciuto. Ricordo ogni cosa. Ricordo mio padre, che era perito elettromeccanico ma che amava Einaudi, Montanelli e studiava la storia leggendo Van Loon. Ricordo l’arrivo degli americani. Ricordo ogni amico e parente. E ricordo quando i nazisti fecero saltare la centrale elettrica nel 1944. Le lastre del tetto erano di Eternit e finirono sul fiume. Noi, bambini, scoprimmo che se lo mettevi nel fuoco, l’Eternit si gonfiava e saltava per aria. E noi giù a dargli fuoco! Eravamo inconsapevolmente pazzi. Qui ho le mie radici. Ricordo proprio tutto».