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Tony Tammaro: «Patrizia era la figlia di una mia vicina di casa, la madre la chiamava dal balcone» 

Al CorMez: «Per le mie canzoni mi sono ispirato a una cugina tamarra di mia mamma. Le mie canzoni le piacevano: i tamarri non sanno di essere tamarri» 

Tony Tammaro: «Patrizia era la figlia di una mia vicina di casa, la madre la chiamava dal balcone» 

Il Corriere del Mezzogiorno intervista Vincenzo Sarnelli, in arte Tony Tammaro. Napoletano del Rione Alto, il 27 dicembre sarà in concerto al Palapartenope. Tutto già sold out in prevendita. Da anni canta “i tamarri“. La sua canzone più celebre è sicuramente “Patrizia“. Racconta chi era.

«La figlia di una signora che abitava al piano di sotto al Rione. Lei non l’ho mai conosciuta, ma la madre ripeteva come un mantra “Patrizia, Patrizia” quando la chiamava dal balcone. La cosa mi sembrava musicale. Presi la chitarra e ci feci una canzone».

Per le altre canzoni Tammaro dice di essersi ispirato a vecchie zie o cugine tamarre.

«Il più delle volte mi sono ispirato a vecchie zie e a qualche cugina tamarra di mia mamma».

La cugina se l’è presa o ne è andata orgogliosa?

«I tamarri non sanno di essere tamarri, per cui la cugina di mia madre mi ha sempre detto che si divertiva molto ad ascoltare le mie canzoni senza capire che stavo parlando di lei».

Ancora su Patrizia.

«È la canzone che mi permise di licenziarmi dal mio lavoro impiegatizio e mi consentì di fare questo che mi dà più soddisfazione. Ero impiegato alla Libreria Guida di via Port’Alba. Mi occupavo della vendita di grossi stock di libri alle biblioteche cittadine. Era un buon lavoro, ben remunerato, ma non era ciò che volevo fare nella vita».

Come nasce Tony Tammaro?

«Alla fine degli anni ‘80 fui costretto a cambiare nome. Operavo come cantante sulla piazza di Napoli e anche mio padre Egisto Sarnelli era ancora in attività. Decidemmo di comune accordo che io avrei fatto uso di un nome d’arte. Non volevamo creare confusione nel pubblico».

Racconta di suo padre.

«Papà era un purista della canzone napoletana. Non amava contaminazioni e neppure Pino Daniele, perché diceva che la chitarra elettrica “non ci azzecca” con la canzone napoletana. Perciò fu difficile fargli accettare le mie canzoni perché secondo lui andavano contro la tradizione. Poi negli ultimi anni della sua vita si accorse che certe correnti erano il seguito naturale della tradizione».

Tammaro definisce la sua una carriera anomala.

«La mia è stata una carriera anomala. Diventai famoso subito. Il tempo di incidere un disco e la settimana dopo mi conoscevano tutti. Non ho fatto gavetta, anche se comunque, per mia scelta, andai a lavorare in provincia. Le metropoli bruciano gli artisti e seguono di più le mode. La provincia ti resta fedele e così è stato».

Dice di aver cantato in tutte le province della Campania, nel basso Lazio, in Puglia e in Calabria. In tutti i comuni della Campania, che sono 550.

«Eh sì. In tutti e anche più di una volta per singolo comune. In un’occasione incontrai il presidente De Luca e gli dissi che la regione probabilmente la conoscevo meglio di lui. Nel paese di Strangolagalli, vicino Capua, ci ho cantato per quattro anni di seguito, idem per Castel Morrone in provincia di Caserta».

Ottanta e più personaggi. Dove li prende?

«Nella libreria di mio padre Egisto, che era anche uno studioso di canzoni napoletane, trovai un curioso volumetto intitolato: Le macchiette di Nicola Maldacea. Per ogni pagina c’era il testo di una canzone dedicata a un personaggio che fa parte della commedia della vita: il giudice, l’avvocato, il malavitoso ecc. e la foto di Maldacea (caratterista di inizio 900) truccato nei panni del soggetto della canzone. Da grande, credo di aver proseguito il lavoro iniziato da lui».

Oggi la parola tamarro funziona ancora?

«È eterna e supera ogni confine geografico. I tamarri sono personaggi nati in piccoli paesi dove esistono scale di valori diverse da quelle cittadine ma che, una volta trasferitisi in città, portano la loro cultura e la mischiano a quella urbana. Creano così slang, modi di vestire e di essere che li contraddistinguono. L’effetto comico per chi li descrive è garantito».

Tammaro dice di studiare molto.

«Studio i personaggi “meteora” probabilmente per non fare la stessa fine. Se canto da più di tre decenni e mi ritrovo ai miei spettacoli un pubblico di giovani, lo devo alle mie ricerche su come evitare gli scivoloni. Questo mese canterò alla festa di compleanno di un cinquantenne e pochi giorni dopo a quella di un diciottenne. Non è da tutti riuscire in questa impresa».

Il ricordo più bello?

«Riguarda un ragazzo di San Giovanni a Teduccio che, cadendo dal motorino, finì in coma. Un giorno i suoi amici andarono a trovarlo in ospedale e gli misero delle cuffiette in testa con la mia canzone ‘O trerrote. Uscì dal coma ascoltandola. Alcuni giorni dopo i suoi genitori mi invitarono in ospedale. Fu un momento molto commovente per tutti».

E il più brutto?

«È legato a certi cafoni che incontravo nei primi anni di carriera. Andavo a cantare in paesi molto arretrati in cui mi accoglievano con un: “canta bbuon o si no nun te pavammo”».

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