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Wanna Marchi: «Truccavo i morti per far mangiare i miei figli. In carcere le più buone sono le zingare»

Su Sette un’intervista alla televenditrice più famosa d’Italia e a sua figlia Stefania Nobile: «In carcere volevano che ci suicidassimo»

Wanna Marchi: «Truccavo i morti per far mangiare i miei figli. In carcere le più buone sono le zingare»

Il Corriere della Sera Sette intervista Wanna Marchi e sua figlia Stefania Nobile. La loro vicenda giudiziaria si è conclusa con una condanna a 9 anni e mezzo scontati fra prigione e domiciliari.

«Se in Italia ci fosse, ci darebbero la pena di morte».

Su Netflix è in onda una serie in quattro puntate dedicata alla loro storia: Wanna.

Wanna Marchi bambina cosa sognava?

«Volevo fare il medico, ma i miei genitori erano contadini, non avevano i soldi. Mangiavamo pane e uva. Il desiderio del camice bianco è rimasto, così ho preso il diploma da estetista. L’ho indossato anche quando, nelle camere mortuarie, truccavo i morti per dar da mangiare ai miei figli, Stefania e Maurizio. La mia vita è sempre stata improntata al bisogno di soldi».

Quello che vi è successo quanto ha a che fare con la paura di tornare ai margini?

Stefania Nobile: «Ancora oggi l’odore della mortadella mi fa piangere. A scuola, quando suonava la campanella, dalle cartelle uscivano tutti questi panini con la mortadella. Per noi a casa costava troppo. Tante volte lo rubavo, ai bambini più grassi. Un giorno avrò tanta mortadella, mi dicevo, tanto prosciutto. Oggi ho tutto il cibo che voglio».

La Marchi racconta come ha cominciato a lavorare con le televisioni.

«Per disperazione. Era il 1977-78, un giorno entra un ragazzino e mi propone un contratto per vendere in televisione. “Se lei non mi aiuta non posso più studiare”. Stavo massaggiando una signora, avevo tutte le mani unte, non ho capito niente e ho firmato. Credevo di aver firmato per seicentomila lire, invece erano sei milioni. Andavo negli studi di nascosto da mio marito, cambiandomi nei cespugli».

La prima trasmissione:

«Gran Bazar, a Telecentro, canale di Bologna. Ma non vendevo niente. Allora mi hanno portato in una tv di Padova. Niente anche lì. Alla terza puntata mi presento senza prodotti, mi faccio dare il microfono e comincio a raccontare la mia storia. Dico addio al pubblico, nelle mie condizioni economiche non mi era più possibile proseguire. Mentre parlo inizia un viavai di gente del centralino. Mi urlavano: “Vai avanti, vai avanti”. Allora racconto che mio marito era un disgraziato, che mi lasciava senza una lira e mi riempiva di botte. Parlo per quaranta minuti. Lasciato il microfono, tremavo come una foglia, ma erano arrivati duemilatrecento ordini. Da lì il salto a Rete A, il grande canale delle televendite»

Il carcere dà anche qualcosa?

Stefania Nobile: «Ti costringe a lavarti, mangiare e dormire con persone dalle quali, per strada, ti scanseresti: lì ci devi vivere insieme. Un’esperienza che ti cambia per sempre».

Il momento più doloroso?

Wanna Marchi: «Quando ci hanno divise».

Stefania Nobile: «Hanno visto che insieme non crollavamo. Volevano ci suicidassimo»

Stefania Nobile racconta:

«A San Vittore. Urlavo come una pazza. Il direttore, Mario Pagano, persona straordinaria, un giorno mi fece chiamare. Mi lasciò capire che, in sua assenza, avrebbero potuto vendicarsi, farmi del male. “Se cadi dalle scale?”. Risposi: “Scusi, ma ci sono le telecamere”. Mi disse: “Perché, secondo te funzionano?”».

Chi ricordate con affetto?

Wanna Marchi: «Le persone più buone in carcere sono le zingare. Aiutano tutti».

Stefania Nobile: «Ce n’era una che nel periodo in cui avevo la febbre e non andavo all’ora d’aria, raccoglieva un fiore o un sassolino e me lo portava davanti alla cella».

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