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Scopigno e la lettera di licenziamento del Bologna: «Ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato»

Sul CorSera il ritratto dell’allenatore filosofo, il primo a rompere con le ipocrisie del calcio scommesse: «Nel calcio la cosa più pulita è il pallone. Quando non piove»

Scopigno e la lettera di licenziamento del Bologna: «Ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato»

Sul Corriere della Sera Gian Antonio Stella firma il ritratto di Manlio Scopigno, ex calciatore di Salernitana e Napoli, poi allenatore (con il Cagliari vinse lo storico scudetto del 1970). Abbandonò la panchina della Roma nel 1973 e non allenò mai più. Morì a Rieti nel 1993: la città gli ha intitolato lo stadio.

Lo chiamavano l’allenatore filosofo. Era figlio di un forestale appenninico, nato a Paularo, nella Carnia, ai confini dell’Austria, cresciuto a Rieti. Gli piacevano il calcio e la cultura, ma ai professori universitari l’accoppiata sembrava senza senso.

Quando, già calciatore, era iscritto alla Sapienza di Roma, sostenne l’esame di letteratura italiana con un assistente, e ad un certo punto intervenne il professore ordinario. Gli chiese:

«Scopigno, mi scusi: ma lei mi sa dire perché un calciatore, nella vita, dovrebbe avere bisogno una laurea in Lettere?».

Scopigno rispose:

«No, io non glielo posso dire. È lei, professore, che dovrebbe spiegarmi perché mai un calciatore non dovrebbe ambire a una laurea in Lettere».

Il docente insistette:

«Vede, Scopigno, in questa società, che qualcuno vorrebbe sovvertire, tutto funziona bene perché i professori fanno i professori, i panettieri fanno i panettieri e gli uomini che amano correre in mutande per la gioia del pubblico fanno i calciatori».

La sfida tra i due continuò con un botta e risposta nella declamazione del canto di Ulisse della Divina Commedia, che Scopigno, come il docente, conosceva a memoria.

Quando fu licenziato dal presidente del Bologna, per l’infelice avvio del campionato 1965-66, a Scopigno fu chiesto se avesse letto quella sgarbata lettera di saluti e lui rispose:

«Se l’ho letta? Sì, purtroppo: ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato».

Stella scrive:

“Fu forse il primo a rompere certe ipocrisie prima dello scandalo del calcio-scommesse: «Nel calcio la cosa più pulita è il pallone. Quando non piove»”.

Fu il primo a difendere il catenaccio e ad abolire i ritiri:

«Sono invenzioni di allenatori questurini, avidi di lucrare perfino sulla diaria».

Fumava, tanto. Ricky Albertosi raccontò a Giancarlo Dotto:

«Con Gigi Riva, amico di sempre, compagno di stanza al Cagliari e in nazionale, erano non meno di 40 Marlboro rosse a testa al giorno. Le nostre camere parevano fumerie. L’anno dello scudetto, un venerdì sera, antivigilia di Lazio-Cagliari, decisiva, imbastiamo un poker a quattro nell’albergo del ritiro romano. Io e la mia fortuna sfacciata, l’impenetrabile Riva, Angelo Domenghini e Sergio Gori, che bastava guardarlo in faccia per capire cosa aveva in mano. Intorno al tavolo, il resto della squadra a tifare. Assatanati. Litri di birra e decine di sigarette. Alle due e mezzo ci viene fame. Ordiniamo panini. Bussano alla porta, mi trovo davanti Manlio Scopigno, che avanza nella stanza facendosi largo in una nuvola di fumo. Rimaniamo tutti col fiato sospeso. Lui ci guarda e fa: “Do fastidio se fumo?”»

Diceva sempre:

«Io non recito. Il calcio è un castello le cui fondamenta sono edificate sulle bugie. Io dico pane al pane e brocco al brocco, e passo per un tipo bizzarro».

Abbandonò il calcio quando non aveva ancora 50 anni. Cercò di restare nel giro come giornalista sportivo.

“Se ne andò, ormai dimenticato, nel settembre ‘93. Nella sua patria adottiva, Rieti. In una delle ultime interviste, tempo prima, aveva malinconicamente raccontato a Melli: «Non fumo più. I polmoni riposano dal 1976. Mi sono sentito male a Vicenza. Poi la guarigione, la lista delle proibizioni, l’attesa accanto al telefono. Qualche dirigente chiamerà… Invece niente…».

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