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Lo scivolone nel miele di Better Call Saul: quando una serie (meravigliosa) finisce bene, cioè malissimo

Ha vinto il politicamente corretto, la redenzione. La trinità Saul-Jimmy-Gene meritava un destino non retorico. ATTENZIONE: SPOILER

Lo scivolone nel miele di Better Call Saul: quando una serie (meravigliosa) finisce bene, cioè malissimo

E’ finito pure Better Call Saul, ma visto che è pur sempre agosto e le connessioni internet al mare fanno schifo, potrebbe darsi che alcuni di voi non abbiano visto il finale. Se è così, questo pezzo appuntatevelo per quando sarete al passo. Altrimenti ci odiereste per gli spoiler. E per noi lo spoiler senza preventivo avviso andrebbe punito con la reclusione da 7 a 10 anni.

Better Call Saul è quella serie spin-off un po’ prequel un po’ sequel di Breaking Bad scritta e prodotta quasi meglio della iconica progenitrice. Un capolavoro, con una premessa di partenza da handicap – il paragone ovvio con un prodotto che ha spaccato la serialità televisiva in un prima e un dopo. Che è finito bene, cioè malissimo.

Fatte salve le critiche meravigliose che leggerete a chiusura di queste sei stagioni – hanno tutti ragione: la serie è stupenda, maniacalmente costruita, il cast ispirato, la fotografia, il montaggio, i tempi, i colori, i cazzi e i mazzi… – il finale pensato da Vince Gilligan e Peter Gould è uno scivolone nel miele inaspettato e un po’ avvilente.

Saul-Jimmy-Gene, la trinità umana interpretata da Bob Odenkirk tra flashforward in bianco e nero e flashback a colori, si ritrova nel tribunale che deve convalidare il suo ultimo sgamuffo – l’accordo che smonta un paio di ergastoli fino a garantirgli sette anni in un carcere con campo da golf – e decide di confessare, in senso religioso più che giudiziario. Fa penitenza. I 7 anni diventeranno 86 in una prigione fetente. In pratica si suicida. E lo fa… (drumroll) PER AMORE. Guarda negli occhi la sua Kim, fino a quando l’espressione di malta di Rhea Seehorn non si addolcisce. Si chiama – orticaria – “lieto fine”.

Apriamo una parentesi per sottoscrivere che il series finale è – sarebbe – una gemma. I colori, i dialoghi, le interpretazioni, gli incastri di riferimenti e easter-egg, una deriva delicata verso un certo cinema autoriale, la chicca della sigaretta che s’accende di rosso mentre tutto il resto è bianco e nero… Ma la chiudiamo perché il crollo molliccio del protagonista, per quanto ben fatto, lo consideriamo un tradimento artistico. Una pigra concessione alla malattia di questi tempi così stressati: la pace.

Il segreto (di pulcinella) di Breaking Bad e Better Call Saul erano i personaggi. In particolare in BCS. C’è chi non ha resistito alle prime tre stagioni: uno scavo lento e meticoloso nella testa e nell’anima di quello che in Breaking Bad si era intestato la parte buffa, mediocre, l’arrangione che si dibatte e sopravvive in un oceano di squali. Sono due serie-trattati, profondi, centellinati, sulla cattiveria umana. A differenza di Walter White (la morte) e Jesse Pinkman (la fuga), Saul-Jimmy-Gene meritava un destino non retorico. L’irrecuperabilità del suo percorso non-evolutivo, senza vincoli morali, a compimento d’un tortuoso e non risolto dilemma personale che l’avrebbe reso “umano”: sai cosa? Mi prendo i miei 7 anni e poi se ne parla…

E invece no: anche Gilligan e Gould non sono riusciti a sottrarsi al richiamo del sentimentalismo. Quella leva che adesso muove le penne verso un unanime trionfalismo di giubilo. Il simbolismo della redenzione… pensavamo che la tv di qualità fosse già andata oltre, da un bel po’.

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