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Malika Ayane: «Macino km di notte per tornare da mia figlia: se lo fa un uomo è un super papà…»

Al CorSera: «La maternità mi ha salvata dalla vita superficiale. Crescendo in periferia ho imparato che la povertà deve essere trattata in modo decoroso»

Malika Ayane: «Macino km di notte per tornare da mia figlia: se lo fa un uomo è un super papà…»

Il Corriere della Sera intervista Malika Ayane. E’ nata a Milano 39 anni fa. Il suo primo brano è stato “Feeling Better”, prodotto dalla Sugar Music di Caterina Caselli. Ha partecipato 5 volte a Sanremo. Da domani parte il suo tour estivo. E’ figlia di mamma milanese e papà marocchino. Racconta le estati in cui la famiglia tornava in Marocco.

«Mio padre caricava di bagagli la Wolkswagen Golf, poi si partiva: da Milano al Marocco in auto, tutta la famiglia, un viaggio lungo cinque giorni. Sapevo che avrei dovuto dormire sui sedili posteriori dell’auto insieme a mia sorella maggiore: era un esercizio di fatica e pazienza, ma anche di grande fantasia».

All’epoca non esistevano i voli low cost.

«Forse per questo oggi il regalo più bello che posso farmi è comperare un biglietto aereo».

A Milano viveva in periferia, tra la Trecca e Ponte Lambro.

«Anche oggi i tassisti, quando mi portano lì, si spaventano. Allora li rassicuro: non è pericoloso, è solo brutto».

Frequenta ancora il suo quartiere.

«Ci vado abbastanza spesso. Io ho cambiato zona, ma le persone che frequento sono le stesse di tutta una vita».

Cosa le ha insegnato crescere in periferia?

«Che la povertà deve essere trattata con cura, in modo decoroso. Ero una bambina con parecchia fantasia che trasformava il campetto davanti casa nella foresta di Sherwood, ma nel mio quartiere la vita ti ripeteva ogni giorno che avevi meno possibilità degli altri: dipingere una facciata, sistemare un cortile è una cosa che si deve alle persone».

Si sentiva più a casa in Marocco o in Italia?

«Non appartenevo a nessuna realtà: in Italia ero la marocchina, in Marocco l’italiana. Ho passato una vita da aliena: fino a quando ho messo piede al Sud e ho pranzato con una famiglia meridionale. A Bari vecchia mancava la Medina, ma c’era tutto quello che faceva parte della mia storia: l’accoglienza, la condivisione, il chiasso».

Quando si trattò di scegliere la scuola media, partecipò ad un open day della scuola media statale del Conservatorio di Milano e chiese a sua madre di iscriverla lì e non alla scuola del quartiere.

«I miei compagni di classe erano figli di musicisti o ragazzi della Milano bene, ma che forse avevano meno voglia di me di studiare. Ero una della prime figlie di straniero che andava al Conservatorio, c’era diffidenza, per via di quella catena alimentare del pregiudizio».

Racconta la sua famiglia.

«In famiglia si è sempre lavorato parecchio. Mia mamma ha fatto per una vita la colf, poi è diventata un’infermiera per malati di Alzheimer. La nonna era la segretaria del direttore della Standa negli anni ‘50: a casa mia la frase era “studia pure la musica, ma trovati un lavoro”».

Il primo stipendio?

«A 11 anni e mezzo ho avuto la prima busta paga dalla Scala. A quell’età già sapevo la differenza tra netto e lordo. Se a 25 anni non avessi pubblicato il mio primo disco, avrei cambiato strada».

Per vivere ha fatto anche la cameriera.

«Quando sono diventata grande per il coro sono andata a lavorare nella caffetteria della Scala, in un call center e come cameriera a Le Trottoir, un locale con musica dal vivo sui Navigli. Ero gasata: pensavo a quando sarei diventata una cantante famosa e avrei potuto dire in una intervista che avevo preso ordinazioni ai tavoli».

Poi, il caso:

«La cantante del locale era malata, il suo sostituto neppure sapeva le parole del brano. L’ho corretto e lui mi ha gridato: “E allora canta tu”. Ci ho guadagnato un contrattino. Subito dopo sono andata a cantare jingle pubblicitari e nel frattempo sono diventata mamma».

Aveva 20 anni.

«Ho capito che dovevo impegnarmi ancora di più, perché avevo davanti due strade: essere uno di quei genitori che i figli compatiscono mentre ti spacchi la schiena oppure — sempre mentre ti spacchi la schiena — guardano con ammirazione. Mia figlia era con me mentre facevo la gavetta: ho firmato il contratto con la Sugar di Caterina Caselli dopo aver lasciato Mia all’asilo».

Ha cresciuto sua figlia da sola?

«Il papà è stato presente, ma il tema della conciliazione mi è stato fatto notare, in chiave decisamente maschilista. Ho macinato chilometri in autostrada di notte per tornare da mia figlia: se lo fa un collega è un super papà, se lo fa una donna è scontato. E a un uomo non vengono fatte domande del tipo “ma come fai ad essere in tour per 6 settimane con tua figlia a casa”»?

Spiega come ha fatto:

«Mi sono assentata solo per cose per cui valeva la pena. Avere un figlio significa anche crescerlo, preparare tre pasti sani al giorno. La maternità mi ha salvata da parecchia vita superficiale. Tutti sanno che nei 15 giorni d’estate con Mia non esisto per nessuno».

Che regalo ha fatto ai suoi con i guadagni?

«Ho chiesto a mia mamma di smettere di lavorare, ma lei vuole continuare. Vizio tutti, per me i soldi servono peri biglietti aerei e per svaligiare Saint Laurent».

È molto gelosa della sua vita privata?

«Più che altro non la trovo interessante. Do buca gli amici per andare al supermercato».

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