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La morte di La Capria: “Che noia però questa Napoli usata come categoria dello spirito!”

Riportiamo un passo di “Ferito a morte” il suo romanzo più celebre: “è una città di simpaticoni la nostra. Io la gente simpatica non la posso sopportare”

La morte di La Capria: “Che noia però questa Napoli usata come categoria dello spirito!”
Scrittore italiano Raffaele La Capria. Italian writer Raffaele La Capria

All’età di 99, è morto Raffaele La Capria grande scrittore napoletano. Pubblichiamo un breve passo del suo libro più celebre: “Ferito a morte” una bibbia per chiunque abbia lasciato o immaginato di lasciare la città.

 

Guardò l’orologio: Io finisco a mezzogiorno.

Quella sua ostinazione a voler rispettare un orario che nessuno gl’imponeva! Da ridergli in faccia. Ma se loro non rispettavano nemmeno la paga? Perché ostinarsi a fingere di essere un vero impiegato?

«Perché questo provoca scandalo».

No, non faceva sul serio, non era possibile. A Napoli? E chi, e di che, s’è mai scandalizzato a Napoli? Dove lo metti il gusto della spregiudicatezza? Gli atteggiamenti da profeta disarmato qua non attaccano, si pensa sempre che lo fai per interesse. Poteva solo diventare antipatico ai suoi presunti colleghi. Stesse attento.

«Qui siamo tutti troppo simpatici, è una città di simpaticoni la nostra. Io la gente simpatica non la posso sopportare».

«Così neppure un articolo al mese ti accettano».

Non era d’accordo, non era questa la ragione, disse. Mancano di complicità i miei articoli, eccola la ragione. Mancano di quella complicità che pretendono si stabilisca tra ognuno di noi e la città. Rompono la paternalistica unità psicologica che incanaglisce e amalgama le classi in una fluida massa. La strizzatina d’occhio equivoca, quella manca.

E perché non ce la metti? gli disse Salvatore Quaglia irritato.

Non gli riusciva, non poteva. Il napoletano che vive nella psicologia del miracolo, sempre nell’attesa di un fatto straordinario tale da mutare di punto in bianco la sua situazione. L’aspetto ambiguo dell’umanità del napoletano con la sua antitesi di miseria e commedia, di vita e teatro. Le due Napoli, una la montatura e l’altra quella vera. La Napoli bagnata dal mare e quella dove il mare non arriva, il Vesuvio e il contro-Vesuvio. Eccetera eccetera. Noo, non gli riusciva. Passano il tempo a coccolare e calcolare mistificazioni del genere, a venderle al maggiore offerente, a chiedere comprensione e ammirazione come se esigessero un credito, con un’aria imbarazzata e altezzosa. Non gli riusciva. Scontano un destino più forte di loro, pagano anche per gli altri napoletani la colpa di aver fatto di se stessi una leggenda. Di sfruttare questa leggenda. Di crederci, di nutrirla con la propria vita. Di cercare in essa l’assoluzione da ogni condanna, il riposo della coscienza inquieta, l’enorme straripante indulgenza della Gran Madre Napoli. La Gran Madre? Di’ la Gran Gatta piuttosto, che alla fine se li pappa senza nemmeno dargli il tempo di aprire gli occhi sopra il mondo.

Che noia però questa Napoli usata come allegoria morale, come categoria dello spirito! Miti da intellettuale medio. Anche l’idea della Foresta Vergine allora è tipica; e così anche Gaetano, dopotutto, rientra nello schema.

Come gli diceva Salvatore Quaglia? «Ma tua allora vuoi fare la rivoluziooone!» con quel bell’o allargato alla barese, che drammatizza bene la parola sempre apocalittica in bocca al cavalieravvocatocommendatore. Lo imitaavo alla perfeziooone.

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