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“Il ragazzo. Il ribelle. Il Dio del calcio”. Dopo Ronaldo e Messi, Balague racconta Maradona

Il giornalista spagnolo racconta la tribolata vita del «Pelusa», dai sobborghi senza acqua corrente di Buenos Aires al tetto del mondo col peso di essere sempre «troppo»

“Il ragazzo. Il ribelle. Il Dio del calcio”. Dopo Ronaldo e Messi, Balague racconta Maradona

Nelle interviste seguite al suo ultimo film “È stata la mano di Dio”, il regista Paolo Sorrentino ha dichiarato di avere voglia, sicuramente, di realizzare un film su un personaggio del mondo dello sport contemporaneo. Le sue mire, al momento, sono sul tennista Ivan Lendl, ma ha confessato serenamente di aver “vanamente tentato”, come tanti suoi colleghi, di avvicinarsi alla biografia di Andre Agassi, “Open”. L’autobiografico film di Sorrentino cita, nel titolo e anche nello svolgimento, non poco gli avvenimenti sportivi che hanno forzatamente impattato la vita del regista. La mano de Dios del titolo è quella di Diego Armando Maradona, nato a Villa Fiorito in Argentina nel 1960 e morto un anno fa.

Le biografie (o autobiografie) dei miti sportivi del tempo contemporaneo stanno lentamente acquisendo dignità in campo letterario laddove ai libri di narrativa ed agli autori che già da decenni sanno raccontare lo sport e gli sportivi si aggiunge il racconto delle vite di questi ultimi. E se Agassi, con Open, ha saputo raccontare (per ora solo su carta) la vita difficile di un ragazzo predestinato al successo, sono altre che, diventando spunto e punto di partenza, hanno travalicato l’uscita editoriale. “Io, Ibra”, scritto da Zlatan Ibrahimovic per mezzo della penna di David Lagercrantz, autore di spessore tale da reggere l’eredità della saga scandinava di Millennium, è ora un film al cinema; “Un capitano”, scritto da Francesco Totti per mezzo della penna del giornalista Paolo Condò, è stata la falsariga seguita per la realizzazione della serie tv “Speravo di morì prima”. E, mentre nel mondo si susseguono gli omaggi e ricordi ad un anno dalla morte, in libreria arriva “Maradona. Il ragazzo. Il ribelle. Il dio del calcio” di Guillem Balague, giornalista sportivo spagnolo ormai specializzato in biografie di personaggi del mondo del calcio moderno. A differenza delle precedenti, su Cristiano Ronaldo e Lionel Messi, però, qui l’autore, grazie alla traduzione di Barbara Porteri, ci consegna un volume che trascende il racconto della “normale” vita di un personaggio sportivo visto che, come recita bene il sottotitolo del volume, Maradona ha trasversalmente impattato sugli ultimi venti anni del secolo scorso consegnandosi alla storia come dio del calcio nonché personaggio unico e irripetibile.

Questo mentre, contemporaneamente, sulla piattaforma Amazon Prime è disponibile la prima stagione della serie “Maradona. Sogno benedetto” che ripercorre con dovizia di particolari e discreta attinenza ai fatti realmente accaduti, la vita del Pibe de oro. Lo scritto di Balague narra le vicende del Diez in maniera cronologica salvo qualche svolazzo anticipatorio e con uno stile cronachistico tipicamente giornalistico: lo scrittore racconta come ha raccolto le informazioni e da chi le ha avute, sovente in presa diretta, non nascondendo lo stupore, la sorpresa e il rispetto per quello che via via andava raccogliendo.

Il libro non nasconde nulla di quella che è stata la tribolata, folle, eccessiva vita del calciatore migliore al mondo; dall’infanzia in una numerosa famiglia quasi indigente in un sobborgo miserrimo di Buenos Aires senza acqua corrente al tetto del mondo (raggiunto alla fine degli anni Novanta, quando giocava nella squadra del Napoli). A dodici anni El Pelusa (soprannome dovuto alla sua folta capigliatura) aveva già toccato il pallone con il suo piede sinistro più volte di quanto normalmente un calciatore fa in tutta la sua carriera; le sue doti balistiche e la sua innata capacità di anticipare i pensieri degli avversari e sviluppare nella sua testa in frazioni di secondo ogni eventuale svolgimento dei tocchi successivi e la capacità di, poi, realizzare movimenti e colpi in maniera precisa e inaspettata sono apparsi da subito superiori alla media e gli han permesso debutti anticipati rispetto ai suoi coetanei. Una vita, tutta una vita, giocata di anticipo; una continua corsa, con il pallone strettamente controllato dal piede sinistro, tra i campi di gioco e allenamento, dove era semplicemente Diego, un funambolo innamorato del gioco, un leader nato nei gruppi in cui ha lavorato, in grado di incentivare e supportare i colleghi, a iniziare dai giovani e dagli altri che rispetto a lui ricevevano magri trattamenti economici (spesso chiedendo con forza aumenti di stipendi e bonus per gli altri). Un ragazzino, con la voglia di buttarsi a qualsiasi età in un campo infangato pur di poter colpire ancora e ancora un pallone, il suo unico compagno fidato per tutta la vita. Un ragazzino in grado di stupire in campo che però non aveva avuto il tempo e il modo e gli strumenti per costruirsi una cultura e una corazza per reggere pressioni enormi quali l’essere il sostentamento di una famiglia già a 16 anni e poi di una intera tribù di decine di persone che per una vita hanno vissuto alle sue spalle per permettergli di avere, in giro per il mondo, un po’ di Argentina a casa sua. Non è un caso che, come raccontato nel libro, la voglia di mollare il calcio (il calcio professionistico, per tornare a giocare a Villa Fiorito con i ragazzini).
Nel ripercorrere le sue cavalcate palla al piede e i suoi successi sportivi non si può evitare di vedere come la sua vita abbia incrociato eventi e personaggi storici fondamentali per l’epoca in cui viviamo, dal Peronismo in Argentina all’amicizia con Fidel Castro all’incontro con il Papa (e la critica ai palazzi con tetti d’oro in Vaticano mentre i poveri muoiono di fame nel mondo) o il lanciarsi contro la Fifa, ente che gestiva e gestisce il calcio nel mondo e che si è poi scoperto essere, come più volte da Maradona detto, diretto da personaggi corrotti e collusi.

E il percorso della sua parabola, dal pozzo di fango di Villa Fiorita al tetto del mondo alla fine degli anni ottanta durante la sua permanenza a Napoli, ha mostrato, nella narrazione di Balague, sia il buono che l’umo Diego e il calciatore Maradona sapevano dare sia le innegabili difficoltà nel gestire il successo, coltivare rapporti professionali con chi gestiva i suoi affari e soldi, bilanciare la sua esuberante vena da predatore sensuale con un rapporto fisso con la compagna della vita, Claudia fino alla debacle fisica dovuta ad una serie di infortuni non guariti ma superati grazie a continue infiltrazioni di antidolorifici e all’utilizzo della cocaina, rifugio da ricchi per un bambino povero che amava solo calciare il pallone e che forse dei soldi non ha mai capito il reale valore o utilizzo.

Soldi, quelli guadagnati in vita da Maradona, che, con il fare da sbruffone scugnizzo che gli si addiceva, sono stati nella stragrande maggioranza spesi in auto, case, investimenti sbagliati e per sostenere una vera e propria corte dei miracoli che bazzicava attorno alla sua casa e la sua vita. Diego non aveva guardie del corpo, come Cristiano Ronaldo oggi, aveva un po’ di Argentina che lo seguiva ovunque andasse.

Per chi lo ha conosciuto, e le cronache e il libro lo attestano continuamente, Diego è stato un rarissimo esempio di generosità incondizionata; a causa delle origini così povere o per suo innato senso morale, Diego non ha mai detto no a nessuno. È sempre stato amichevole e tollerante con i suoi compagni di squadra e si è fatto, soprattutto dopo aver chiuso la carriera da calciatore, portatore di una serie di battaglie a tutto campo contro i privilegi e le storture del capitalismo. Singolare, ma neanche tanto leggendone il percorso di vita, per quello che è stato, in un momento in cui le squadre di calcio più blasonate sopravvivevano a stento e negavano ai calciatori qualsiasi extra o bonus, il primo calciatore ufficialmente rappresentato da un agente che ne curava gli affari (l’amico Jorge Cyterszpiller), il primo calciatore ad avere contratti pubblicitari (da giovanissimo, con la Coca Cola quando ancora era in Argentina), il primo ad avere un ufficio stampa che lavorava per lui, il primo a guadagnare quasi più con le pubblicità e le operazioni commerciali che con lo stipendio da calciatore, il primo a farsi filmare con una telecamera con lui giorno e notte per una specie di documentario sulla sua vita, il primo ad avere con sé un proprio preparatore atletico (il “Profe” Signorini), il primo a portare con sé anche il massaggiatore avuto a Napoli, un napoletano che, con lui, ha vinto il Campionato del Mondo in Messico nel 1986. Quello durante il quale, nella partita con l’Inghilterra (in una virtuale rivincita della Guerra delle Falkland), ha realizzato quelli che resteranno scolpiti nella storia come i due goal più importanti del secolo, quello con la Mano de Dios (tocco scorretto di mano invece di testa) -esempio di “viveza criolla” o istinto malandrino di sopravvivenza e quello dei 13 tocchi durante il quale ha tecnicamente superato, da solo, palla al piede, l’intera nazionale avversaria.

Nel 2001, in un saluto finale al suo pubblico, l’uomo che continuava a volersi lanciare nelle pozzanghere pur di toccare un pallone, disse: “Ho cercato di divertirmi giocando al calcio e di rendervi tutti felici. Credo di esserci riuscito. Tutto questo è troppo per una sola persona, per un solo giocatore”. Ecco, questo è il dubbio che non potremo mai toglierci. Se qualcuno, di fidato, un amico, fosse riuscito a guarire Diego dai suoi demoni interiori sollevandolo dal peso di essere sempre “troppo”, troppo in alto, troppo importante per la tribù che viveva alle sue spalle, per una nazione che lo aveva eletto simbolo rivoluzionario, per un popolo (napoletano) che lo aveva adottato come neo Masaniello contro l’imperversare della dittatura sportiva del Nord Italia… se qualcuno fosse riuscito a sollevare Maradona da tutto questo, Diego avrebbe fatto, in campo, quello che ha fatto?

Guillem Balague, Maradona. Il ragazzo. Il ribelle. Il dio del calcio, Piemme, pagg.416

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