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“È stata la mano di Dio” è un’opera tra Elena Ferrante e Pieter Bruegel il Vecchio

Maradona può aver letteralmente salvato Fabietto e in misure diverse molti napoletani. È anche un film su come il cinema gli abbia restituito la possibilità di rivedere Napoli

“È stata la mano di Dio” è un’opera tra Elena Ferrante e Pieter Bruegel il Vecchio
Set of "The hand of God" by Paolo Sorrentino. in the picture Luisa Ranieri. Photo by Gianni Fiorito This photograph is for editorial use only, the copyright is of the film company and the photographer assigned by the film production company and can only be reproduced by publications in conjunction with the promotion of the film. The mention of the author-photographer is mandatory: Gianni Fiorito. Set della serie Tv "E' stata la mano di Dio" di Paolo Sorrentino. Nella foto Luisa Ranieri. Foto di Gianni Fiorito Questa fotografia è solo per uso editoriale, il diritto d'autore è della società cinematografica e del fotografo assegnato dalla società di produzione del film e può essere riprodotto solo da pubblicazioni in concomitanza con la promozione del film. E’ obbligatoria la menzione dell’autore- fotografo: Gianni Fiorito.

Il mondo non dovrebbe essere “unito e incollato a noi in modo che non lo si possa staccare senza scorticarsi e strappar via insieme qualche pezzo di noi. La più grande cosa del mondo è saper essere per sé.”

Suona più o meno così un passaggio di Montaigne contenuto nei suoi famosi Saggi pensando al senso di vuoto per la perdita di una persona amata, l’amico La Boétie. Nel suo ultimo film, È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino ha raccolto tutti i pezzi di Fabietto, il protagonista e allo stesso tempo il suo alter ego, strappati via all’improvviso dalla perdita dei suoi genitori.

Mi vengono in mente due quadri di Pieter Bruegel il Vecchio, il pittore fiammingo che fu in Italia tra il 1551 e il 1553 passando per Roma, Napoli e Messina, due quadri che si possono in qualche misura sovrapporre. Il primo è la Battaglia nel porto di Napoli, realizzato probabilmente nel 1556, che mostra il golfo di Napoli da un’insolita prospettiva infiammato da una battaglia navale molto probabilmente inventata. Sulla sinistra si riconoscono Castel dell’Ovo, la torre sull’isolotto di San Vincenzo e Castel Nuovo, sulla collina domina Castel Sant’Elmo, sulla destra emerge il Vesuvio: tutta la veduta è molto ampia e presa dal mare, esattamente come il lungo piano sequenza che apre il film di Sorrentino e che sembra nascere proprio dalle increspature delle acque del golfo.

Il secondo quadro di Pieter Bruegel il Vecchio è il più famoso La caduta di Icaro, datato 1558 circa. La scena mostra ancora una volta una città con il suo golfo, in questo caso Messina, ma la prospettiva è dalla terra ferma animata da un pastore, un contadino e un pescatore un po’ più lontano seduto su uno scoglio con la canna. A un primo sguardo la scena è molto ordinata e tranquilla, è necessario prestare una certa attenzione per capire che in basso a destra della tela si sta consumando la tragedia di Icaro e la parte finale della sua caduta proprio quando tocca rovinosamente in mare (tra le varie interpretazioni, c’è un’allusione al proverbio fiammingo “nessun aratro si ferma perché muore un uomo”). È evidente che Pieter Bruegel mette in secondo piano la caduta di Icaro, tutta la scena è costruita in modo da esaltare non tanto la tragedia, ma l’indifferenza di ciò che c’è attorno a essa. Può darsi che il pescatore si sia accorto della caduta, può darsi di no, il contadino e il pastore certamente no, in ogni caso la vita va avanti. Questa consapevolezza tocca chiunque a un certo punto della vita ed è certamente una cognizione molto dolorosa: si è al centro del mondo solo all’interno della propria soggettività, la realtà può restituirci in certe precise circostanze un senso di totale abbandono.

Sorrentino ha sovrapposto i due quadri di Pieter Bruegel raccontando il volo di Fabietto e mettendo il Vesuvio come sfondo della sua caduta. Certo, la tragedia della morte dei genitori è in primo piano da un punto di vista narrativo, non c’è bisogno di guardare attentamente per rinvenire la caduta come nel quadro di Icaro. Del resto, ci sono altre cadute che emergono dallo sfondo, alcune ancora ben visibili: il crollo psicologico della zia per non essere diventata madre, il dolore della madre per il perpetuarsi del tradimento, la sofferenza tremante del figlio nel constatare la disgregazione relazionale tra padre e madre, la chiusura della sorella in bagno che rifiuta di stare al mondo, lo zio Alfredo che accetta di stare al mondo solo tramite il credo fideistico di Maradona.

Altre cadute sono meno visibili e bisogna fare un po’ più attenzione. Quella di Napoli, ben esemplificata dalla battuta del padre a Fabietto sul possibile passaggio di Maradona al Napoli: “Non ci mettere ‘o pensiero. Figurati se quello da Barcellona viene ‘int’a ‘sto cesso”. È un’eco appena percettibile della città nel suo insieme, chiaramente non tematizzata dal film, ma si avverte come la prima aria autunnale dopo un’estate torrida. Maradona può aver letteralmente salvato Fabietto e in misure diverse molti napoletani che hanno attraversato quegli anni vivendo forse per la prima volta un senso di speranza e di appartenenza concreta in ogni angolo del proprio quotidiano, ma dopo il passaggio dell’aquilone cosmico e il ritorno alla centralità delle proprie rovine civiche e sociali emerge ancora di più una consapevolezza che forse i napoletani si portano da sempre. La consapevolezza dell’assurdità della Storia e delle sue nefaste articolazioni e conseguenze: “un incubo pieno di ferocia e di morte”. Elena Ferrante coglie questo aspetto in un passo de L’amica geniale: “Napoli era la grande metropoli europea dove con maggiore chiarezza la fiducia nelle tecniche, nella scienza, nello sviluppo economico, nella bontà della natura, nella storia che porta necessariamente verso il meglio, nella democrazia si era rivelata con largo anticipo del tutto priva di fondamento. Essere nati in questa città – arrivai a scrivere una volta, pensando non a me ma al pessimismo di Lila – serve a una sola cosa: sapere da sempre, quasi per istinto, ciò che oggi tra mille distinguo cominciano a sostenere tutti: il sogno di progresso senza limiti è in realtà un incubo pieno di ferocia e di morte”.

Il dialogo tra Fabietto e Capuano davanti al Vesuvio all’alba declina la consapevolezza dell’assurdità della Storia su due piani, individuale e sociale. Capuano è un artista profondamente avvilito da una promessa di cambiamento continuamente frustrata che l’arte avrebbe dovuto realizzare come strumento di rivoluzione: “nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città”. Il Vesuvio rimane immobile sullo sfondo e pare che nulla possa scalfirlo, anche per questa ragione la veemenza con cui Capuano si rivolge a Fabietto sulla necessità di raccontare la città è ancora più muscolosa, sembra l’ultimo appello per scongiurare che il mare inghiotta Napoli. Se il sogno di progresso è in realtà un incubo senza fine, se Napoli è una città condannata a non morire per poter rinascere, l’unica salvezza è la ricerca espressiva: solo così si può trovare una terza via per chi è rimasto a vivere a Napoli “dove si rischia o di impazzire o di essere complice del fallimento generale” (Gianluca Nativo, Rivista Studio). Fabietto cerca invece una via espressiva per salvare la propria identità: “la realtà è scadente”, e non potrebbe essere altrimenti dal suo punto di vista.

In questo dialogo c’è una traccia metacinematografica evidente, infatti i due riflettono sulla stessa vocazione del cinema. Spesso è stata richiamata la figura di Fellini parlando del cinema di Sorrentino. Non è il caso di inoltrarsi su questo terreno da un punto di vista estetico, una comparazione per certi versi del tutto inutile: certamente Fellini ha spesso messo in scena nei suoi film il farsi del cinema stesso, specialmente con il suo capolavoro Otto e mezzo, il massimo grado di manifestazione della riflessività del cinema, ossia della capacità del cinema di riflettere su stesso. Il grande teorico del cinema Christian Metz individua una costruzione narrativa ancora più specifica – Film(s) nel film – e spiega come la cosiddetta costruzione in abisso in Otto e mezzo individui un rapporto particolare tra il film inglobante e il film inglobato: “Una cosa è mostrare, in un film, un secondo film il cui soggetto non ha o ha pochi rapporti con quello del primo [Metz fa diversi esempi, il mio preferito è La nuit américaine di Truffaut]; un’altra cosa è invece parlare, in un film, di questo stesso film mentre si va facendo” (è in araldica che si parla di costruzione in abisso: è il caso in cui all’interno di uno stemma c’è un secondo stemma che riproduce il primo in una scala ovviamente ridotta).

In altre parole, nel caso di Fellini, il film nel film è il film stesso. In Otto e mezzo il primo film racconta la storia del regista Guido alle prese con la produzione di un film e soprattutto con la sua crisi poetica ed esistenziale, Guido sembra un uomo abbandonato dalla sua matrice creativa e individuale: “Mi sembrava di avere le idee così chiare. Volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere. Mi pareva di avere qualcosa di così semplice, così semplice da dire. Un film che potesse essere utile un po’ a tutti, che aiutasse a seppellire per sempre tutto quello che di morto ci portiamo dentro. E invece io sono il primo a non avere il coraggio di seppellire proprio niente. Adesso ho la testa piena di confusione, questa torre tra i piedi. Chissà perché le cose sono andate così. A che punto avrò sbagliato strada? Non ho proprio niente da dire. Ma voglio dirlo lo stesso”.

Questo secondo film, il film di Guido, pur essendo in senso stretto completamente assente (non se ne vede un’immagine), in un certo senso, e proprio grazie alla sua assenza, si sostituisce al primo: Metz commenta che Fellini ha fatto un film del non film di Guido, ed è per questo che “viene ad abolirsi ogni distanza tra il film che sogna Guido e quello che ha realizzato Fellini”. Entrambi, nella famosa scena finale del girotondo, si confondono completamente, non c’è più distinzione a livello metanarrativo tra vita e finzione, e questa costruzione è la risposta di Guido alle parole del personaggio Daumier che incarna nel film la figura dell’intellettuale e che invece rivendica per il cinema una coscienza critica e una vocazione in senso lato più politica e filosofica rispetto ai “piccoli ricordi bagnati di nostalgia” di Guido: “Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni, che non hanno ragione di vita, che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista veramente degno di questo nome non bisognerebbe chiedere che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio. […] E lei vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo sciancato si lascia dietro la sua impronta deforme. Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori. E a lei che cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vari ricordi, o i volti delle persone che non ha saputo amare mai?”.

Nel film di Sorrentino non c’è nessuna istanza metafilmica, nessun film nel film (se non la messa in scena nella Galleria Umberto I proprio di un set di un film), ma un’esplicita riflessione metacinematografica: nei dialoghi tra Fabietto e Capuano ritroviamo per certi versi e con tutte le approssimazioni del caso questi due atteggiamenti contrari sulla vocazione del cinema. Se la realtà è scadente, bisogna dare senso al vuoto individuale e alla ferocia dell’abbandono attraverso il cinema, cercando di ricucire e trasfigurare proprio i brandelli della vita con i suoi vari ricordi, non importa quanto reali o dolorosi. In Capuano la vocazione è invece politica, e non è molto lontana dalla decostruzione dell’intellettuale in Otto e mezzo: dare senso al vuoto collettivo e a ciò che nel suo specifico caso, partendo da Napoli e dalla sua magnifica filmografia, lo impressiona di più, la sua disumanità.

Fabietto è spezzato, come un ramo sottile in balia delle onde, e quando si è spezzati le diverse parti vanno per conto loro e possono non ritrovarsi più. L’indifferenza del Vesuvio che fa da sfondo nel dialogo tra Fabietto e Capuano – lo stesso Vesuvio che accompagnava la corsa di Fabietto sulla vespa insieme ai genitori, tutti e tre stretti scendendo da Posillipo – è tra i passaggi narrativi più struggenti. Come è possibile che tutto continui a rimanere esattamente nello stesso posto? Com’è possibile che il Vesuvio continui a guardarci immobile incarnando una promessa di futuro? Il dolore di Fabietto è al centro della storia di Sorrentino, ma a differenza di Pieter Bruegel che mostra l’indifferenza della realtà rispetto alla caduta di Icaro, Sorrentino prova a raccontare questa stessa indifferenza dal punto di vista di Fabietto. Siamo con lui quando tocchiamo l’acqua e facciamo esperienza della sua resistenza come una lastra di ghiaccio, siamo con lui quando il mare copre bocca e occhi e non vediamo più nulla, siamo con lui quando cerchiamo di capire dove è la terraferma. Se non riusciamo più a vedere il Vesuvio, malgrado stia ancora lì, allora sono necessarie le parole e le immagini di un racconto. Tra le altre cose, Sorrentino ha fatto un film sul cinema e su come il cinema gli abbia restituito la possibilità di rivedere Napoli.

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