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Finardi: «Sono metà americano, da piccolo mi chiamavano ‘benzinaro’. A mia madre dicevano ‘Torna al tuo paese’»

Intervista a Specchio: «L’Italia negli Anni 50 era molto omologata. Oggi mi sento meno solo. Carmelo Bene mi ha insegnato il potere della voce»

Finardi: «Sono metà americano, da piccolo mi chiamavano ‘benzinaro’. A mia madre dicevano ‘Torna al tuo paese’»

Su Specchio un’intervista ad Eugenio Finardi. Dice di adorare la tecnologia, ma un po’ meno i social media.

«Ecco, adoro la tecnologia, ma penso che Facebook sia una grandissima iattura. I social media sono stati un danno più grande di quanto possiamo pensare. Hanno permesso l’elezione di Trump, ad esempio. Aizzano odi, sono tarati per esacerbare, per esagerare, per attirare l’attenzione. Non riflettono la realtà. Non è solo che tiriamo fuori il peggio, credo che il mezzo stesso incattivisca, faccia montare la rabbia. Poi certo, dipende anche da come li usi: spesso ci sono discussioni interessanti».

Racconta la sua vita.

«Io sono nato metà italiano e metà americano, con due lingue, due culture: questa cosa ha segnato molto la mia vita. Ogni anno dispari andavo a fare le vacanze in America, un po’ come i meridionali immigrati al Nord che tornano al Sud in estate. E lì, in tv, nel 1965: vidi gli Stones, ne fui fulminato e mi innamorai del blues».

Ma quando tornava dall’America si sentiva molto solo.

«Mi sentivo abbastanza solo, sempre molto diverso dagli altri. L’Italia negli Anni 50 era molto omologata: tutti i bambini avevano i pantaloni corti blu e le bambine la gonna plissettata, la camicia bianca e le calze bianche fino al ginocchio. Mia madre invece mi vestiva con le tutine americane che adesso mettono anche i nostri bambini, ma i miei compagni di scuola mi chiamavano “benzinaro”. In questo senso mi sento molto vicino alla generazione dei Ghali, dei Mahmood. Ghali cantava “quando mi dicono torna a casa, io rispondo: sono già qui”: quella frase, torna a casa tua, la dicevano a mia madre pensando che fosse tedesca perché era molto bionda e aveva anche un accento strano. Quando ero piccolo ricordo in tram un paio di volte di aver sentito “torna al tuo paese”: e ora che ci sono molti italo-qualcosa mi sento meno solo».

Racconta l’incontro con Carmelo Bene.

«Mi ha dato lezioni di vocalità. Non lo sa nessuno, è una cosa antecedente alla mia fama, ero proprio agli inizi e stavo con un’attrice che recitava con lui. Erano al Manzoni, e mi invitavano al ristorante dopo lo spettacolo. Quando seppe che ero un cantante figlio di una cantante lirica, mi insegnò a usare i segni facciali come cassa armonica a proiettare la voce in alto a sinistra, in alto a destra, verso l’occhio verso il mento: è difficile da spiegare, ma mi insegnò il potere della voce, qualcosa che poi mi è rimasto».

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