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Bianchi: «Parlai con Maradona e capii: me ne dovevo andare da Napoli per non assistere allo scempio»

Al Messaggero: «Dicevano che Diego si allenasse poco e male: frottole. Bastava dargli il giocattolo, la palla, e andava in estasi. Era un genio e un uomo semplice»

Bianchi: «Parlai con Maradona e capii: me ne dovevo andare da Napoli per non assistere allo scempio»
Ottavio Bianchi e Diego Armando Maradona

Il Messaggero intervista Ottavio Bianchi, l’allenatore del Napoli del primo scudetto. Il tema è Diego Armando Maradona.

«Gli dicevo: Diego adesso basta allenamento, vatti a fare la doccia, siamo qui da due ore. E lui niente. Dicevano che Diego si allenasse poco e male: frottole. Semmai il contrario. Non voleva uscire mai dal campo, si divertiva troppo. E pur di non tornare negli spogliatoi, si metteva in porta a parare. Anche se pioveva a dirotto e c’era tutto fango, anzi meglio, si tuffava con più gioia: me lo voglio ricordare così, allegro, che si rotola nelle pozzanghere mentre è quasi buio, e ride felice col sua palla, almeno lì lontano dalle pressioni mostruose che aveva. Il mio povero Diego».

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«Avevo un bel rapporto col suo preparatore Signorini, con lui provai a parlare a Diego, erano colloqui serrati, tentavo di dissuaderlo, di dirgli che se avesse percorso quella strada poi avrebbe avuto tanti problemi nella vita… Finché un giorno, senza guardarmi negli occhi e mangiandosi le unghie, mi disse a bassa voce: mister, lei ha ragione, ma io non posso che vivere così, devo avere sempre il piede sull’acceleratore. Mi sentii enormemente solo e sfiduciato, capii che non contavo più niente e sarei dovuto rimanere al Napoli ad assistere allo scempio, così decisi di andarmene. Da Napoli e da Diego».

Le pressioni che Maradona era costretto a sostenere erano enormi.

«Maradona aveva pressioni insostenibili, pazzesche è dir poco, nemmeno una persona con una grande preparazione culturale le avrebbe sopportate. Ma ho avuto la fortuna di godermelo, e me lo ricordo così, nella sua genuinità. Con me e con i suoi compagni era un uomo eccezionale, spontaneo. Bastava dargli il giocattolo, la palla, e andava in estasi, era pura gioia. Non gli ho mai, dico mai, sentito rimproverare un compagno, nemmeno le riserve, mai ostentava la sua superiorità che era enorme. Era un genio e un uomo semplice. E si allenava da matti, perché più uno è un asso più lavora, come i grandi musicisti. Voi avete visto i suoi gol celebri, da metà campo o su punizione, di mano… ma non sapete che non erano gesti estemporanei, erano cose che noi vedevamo tutti i giorni, il colpo a effetto non era casuale ma frutto del lavoro. E ci trascinò a quelle vittorie indimenticabili, trovando anche una squadra disposta a seguirlo, con fame di vincere. E con un allenatore, io, che per 4 anni visse recluso e isolato in hotel, e mangiava in due ristoranti al massimo, spesso coi camerieri, per non essere influenzato dalle passioni della città. Andò bene, direi. Anche perché c’era il mio Diego».

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