In Italia ci si vergogna del calcio. Chi va allo stadio, è considerato un buzzurro che va alimentato con una narrazione tossica e primitiva. Poi arriva Draghi romanista e ci si sorprende
Che cosa spinge Enrico Mentana (e forse altri) ad equiparare gli ululati razzisti ai fischi a Donnarumma? È questo il nodo della questione. È semplice rispondere: l’ignoranza. È arduo dare dell’ignorante a Mentana. Il punto, a nostro avviso, è un altro: è la concezione che si ha dello stadio e dei suoi frequentatori. E che al fondo fa sì che la questione razzismo in Italia, almeno per quel che riguarda il versante calcistico, non venga presa sul serio. È l’altro lato della frase di Gravina: “è un problema culturale”. E buonanotte al secchio.
Perché lo stadio è fondamentalmente considerato quel luogo in cui le persone vanno a sfogare i bassi istinti. Tutte. Lo stadio è più o meno sempre stato considerato una zona franca. Ha le proprie regole, le proprie gerarchie, talvolta anche in materia di ordine pubblico.
Per cui nella testa di chi ha questa concezione, che poi è la concezione per cui chi va allo stadio fondamentalmente è un minus, gli ululati razzisti non sono ascrivibili alla piaga del razzismo ma a un disagio più esteso che trova sfogo anche nell’insulto dovuto al colore della pelle.
È il motivo per cui un fenomeno gravissimo come quello del razzismo viene sovrapposto ai fischi rivolti a un ex giocatore del Milan che ha scelto di andare a giocare in un’altra squadra – il Psg – per guadagnare di più e anche per crescere professionalmente. Sono due piani profondamente diversi. Lo sa benissimo Mentana che peraltro gli stadi li ha anche frequentati.
Il punto è la considerazione dello stadio, la considerazione di chi ci va (o sarebbe più corretto dire: ci andava). Il punto è anche la considerazione che in Italia tutti, ma tutti, hanno del calcio. I quotidiani sportivi più o meno inconsciamente si rivolgono a un pubblico che in cuor loro credono essere di modesto livello. Ed è francamente un mistero. Fondamentalmente in Italia ci si vergogna del calcio. Si ha col calcio lo stesso rapporto che si ha col sesso. Perché dobbiamo vergognarci di essere appassionato di calcio?
Non a caso l’opinione pubblica si sorprende quando scopre che Mario Draghi è un romanista incallito e ha rosicato per il derby perso. Come se si fosse offuscata l’immagine della Madonna. “Draaaaghi tifa Rooooma?”, manco fosse stato scoperto a rubare le caramelle a qualche bambino. Tifa Roma sì. Dove sta scritto che chi è appassionato di calcio, debba obbligatoriamente essere un buzzurro?
È la stessa visione per cui i trasferimenti dei calciatori in Italia vengono dipinti come tradimenti. In fin dei conti nessuno vuole rompere questo filone narrativo. Non c’è nessuno che si alzi e dica: “Vabbè ma è normale che Donnarumma va al Psg. Vivaddio. Non rompete le scatole e sperate anzi lavorate affinché vostro figlio faccia lo stesso”. Invece da un lato si prosegue nel racconto stereotipato e primitivo, per paura di perdere audience, e dall’altro poi si spara sul mucchio dei trogloditi che vanno allo stadio e seguono il calcio. Bisogna anche mettersi d’accordo. Da quel che raccontiamo, da come lo raccontiamo, dipende il resto.
Fischiare Donnarumma può risultare sgradevole, antipatico, ma è una manifestazione legittima. Insultare un calciatore per il colore della pelle, no. È una differenza chiara persino a chi segue il calcio. Meno all’idea che soprattutto i media hanno degli appassionati del pallone.